I NEET IN UMBRIA
Analisi di un fenomeno e comparazione del disagio
Con l’acronimo inglese NEET (Not in Education, Employment or Training, ovvero non impegnato nello studio, né nel lavoro, né nella formazione), viene indicata quella parte di giovani, sfiduciata circa la possibilità di trovare una collocazione lavorativa, che rischia di adagiarsi in una ‘nullafacenza’ che porta gravi conseguenze individuali, sociali ed economiche.
A livello individuale, più tempo si passa in questa condizione più aumenta il rischio di sviluppare comportamenti devianti e problemi di salute fisica e mentale, di impoverire le proprie relazioni sociali, di accumulare svantaggi nell’accesso al mondo del lavoro e, conseguentemente, ad un reddito adeguato.
A livello sociale, l’impatto è più ampio, perché i giovani NEET diventano meno propensi dei loro coetanei a partecipare attivamente alla vita sociale, culturale e politica senza considerare che i NEET rappresentano una forza di lavoro inattiva, che non si sta formando, che rimane isolata non contribuendo a produrre ricchezza.
In Umbria, a seguito dell’emergenza COVID-19, il numero dei NEET è arrivando al 19%.
Per questo, la Regione ha rimodulato l’utilizzo delle risorse del POR FSE 2014-2020 ancora disponibili e non programmate, finalizzandole a misure di intervento in risposta all’emergenza e alla ripartenza del sistema economico-sociale dell’Umbria. Più nello specifico, si tratta dell’Avviso “Integrazione Giovani 2020”, con uno stanziamento di 2,6 milioni e con il quale si prevede di intercettare e orientare alla formazione professionale circa 300 giovani fuoriusciti dal sistema dell’istruzione, offrendo loro anche servizi di orientamento, recupero e sviluppo di competenze, sostegno all’apprendimento, accompagnamento al lavoro e prevedendo al termine dei percorsi, incentivi all’assunzione a favore delle imprese che inseriranno nell’organico aziendale i giovani.
Per quanto riguarda gli interventi in attuazione della II fase del Programma Garanzia Giovani, i giovani NEET potranno beneficiare delle misure previste dall’Avviso “Reimpiego” così come sopra rimodulato, si procederà a ridefinire le azioni realizzabili a fronte dello stanziamento di 1,6 milioni di euro per misure non ancora attivate unitamente alle economie derivanti dalla prima Fase del Programma.
Purtroppo il fenomeno NEET è accompagnato da un nuovo dilagante fenomeno sociale, che coinvolge milioni di giovani, per lo più adolescenti maschi e figli unici, che si autorecludono, rimanendo in contatto con il mondo solo attraverso la rete: i così detti “hikikomori”. Questo fenomeno è fortemente legato allo sviluppo delle nuove tecnologie nonché sul loro impatto sulla comunicazione, sulle relazioni e sulle percezioni ed è esploso negli anni ottanta in Giappone dove le ultime stime del governo parlano di più di un milione di hikikomori (considerando anche le persone di età compresa tra i 40 e i 59 anni ovvero gli adolescenti degli anni ‘80).
Hikikomori è un termine giapponese il cui significato è “stare in disparte, isolarsi”. Si tratta infatti di una condizione psico-sociale, riguardante bambini, adolescenti e giovani adulti al di sotto dei 30 anni, che si caratterizza per una forma estrema di ritiro sociale, ovvero per la tendenza ad evitare qualsiasi coinvolgimento sociale (Moretti, 2010). Gli hikikomori generalmente si chiudono nella propria stanza e interrompono volontariamente i rapporti con gli altri (Ricci, 2008; Tajan, 2015), a volte senza uscire anche per decine di anni. La reclusione coincide spesso con l’abbandono scolastico.
Gli hikikomori non sono un fenomeno esclusivamente giapponese, ma si sta lentamente diffondendo in tutte le società sviluppate del mondo ed anche in Italia. In Italia, ci si sta accorgendo del fenomeno solamente negli ultimi anni, ma i casi sono già tantissimi.
La pandemia ha contribuito a un importante aumento del numero di hikikomori. In Italia i circa 100 mila casi rappresentano il numero più alto in Europa. Stanarli non è facile perché si confondono con chi è costretto in casa. “Ma la loro solitudine è diversa“, sostiene Marco Crepaldi, presidente Hikikomori Italia, per cui molti giovani non torneranno a scuola.
Le cause di questo fenomeno possono essere diverse e vengono distribuite nel seguente modo:
– cause caratteriali: gli hikikomori sono spesso ragazzi molto intelligenti, sensibili, che faticano relazionarsi con gli altri e che trovano difficile vivere in una società ultra-competitiva, come quella moderna;
– cause familiari: gli hikikomori sono spesso maschi, figli unici o comunque i primogeniti di famiglie benestanti; su di loro ricadono grandi aspettative da parte dei genitori che incitano a studiare ed ottenere il successo scolastico sin dai primi anni di vita. Spesso la pressione a cui sono sottoposti gli portano ad un vero e proprio crollo psicologico e da qui all’isolamento;
– iper-protettività familiare: genera nei ragazzi una fragilità e una debolezza molto forti, a causa delle quali non riescono a confrontarsi e scontrarsi con il mondo esterno;
– cause scolastiche e sociali: quasi tutti gli hikikomori hanno subito atti di bullismo a scuola e quindi vivono l’ambiente scolastico in modo molto ansioso e negativo. Queste esperienze negative li portano ad avere una sfiducia nelle azioni e, in generale, nel funzionamento della società, fino ad un netto rifiuto della stessa e quindi alla scelta di voler rimanere a margine. Anche la dipendenza da internet viene spesso indicata come una causa del fenomeno; soprattutto i media puntano il dito contro le nuove tecnologie e le incolpano di generare questa spirale d’isolamento, ma, tuttavia, sebbene quasi tutti gli hikikomori utilizzino con serenità il computer e i videogame, questi strumenti non sono la causa del ritiro, ma bensì la conseguenza: il computer per un hikikomori rappresenta infatti l’unico mezzo di contatto con il mondo esterno. Gli hikikomori non sono dipendenti dal mondo virtuale, ma ne sono affascinati. Noi viviamo in una società narcisistica, dove bisogna saperci fare, rappresentarsi e non vergognarsi. Questi ragazzi percepiscono inadeguatamente il proprio corpo e la propria immagine di sè.
La società da sempre lavora molto sulla vergogna individuale derivante dal fatto che i ragazzi non riescano, in un momento molto delicato come l’adolescenza, a sostenere il ritmo imposto loro, quindi si isolano ed emergono nel mondo virtuale nel quale, invece, si muovano liberamente perché il corpo fisico scompare. La rete è priva della vergogna: sostituendosi con personaggi immaginari scompare anche il bisogno di nasconderci. I ragazzi trovano una protezione nella rete e se togliamo questa, il ragazzo resta indifeso.
L’isolamento mette al sicuro fino al punto da proteggerlo anche dal rischio di suicidio. Sconsigliato forzare l’uscita dall’isolamento, piuttosto si raccomanda di condividere la loro chiusura andando in rete con loro e parlando di quello che vedono, condividendo le loro esperienze in modo che poi, quando il ragazzo è pronto, sarà possibile optare per una uscita graduale.
I periodi più critici della vita nei quali è più facile diventare un hikikomori sono due:
1) durante le scuole medie superiori perché ci si scontra con un contesto maturo e con i propri pari, oppure;
2) al termine delle superiori e prima di entrare nel mondo d’università o del lavoro, perché, una volta conclusa la vita scolastica, vissuta come obbligatoria, è richiesto un impegno diverso ai ragazzi ed una motivazione di auto realizzazione che li porti a scegliere una carriera lavorativa impegnandosi ottenerla risultati. Un esame fallito, un test d’ingresso andato male possono essere un motivo in grado di scatenare un isolamento, che spesso inizia gradualmente autoalimentandosi e diventando sempre più grave.
Esistono però delle differenze tra gli hikikomori giapponesi e quelli italiani riassumibili in due punti principali:
1) gli hikikomori italiani mantengono solitamente il contatto, pur conflittuale, con i propri genitori; quelli giapponesi si isolano spesso chiudendo la porta della camera non mostrandosi nemmeno per i pasti, facendosi lasciare il vassoio con il cibo fuori dalla porta;
2) in Italia, sembra che ci siano di più ragazze hikikomori, rispetto al Giappone; questo dato potrebbe essere spiegato dal fatto che sulle donne giapponesi ci sono spesso meno aspettative di realizzazione sociale ed a causa delle differenze del genere una donna che non esce di casa è vista meglio e con meno ansia rispetto ad un uomo recluso.
Attualmente, in Italia, non esistono veri e propri centri specializzati sul fenomeno, quindi spesso le famiglie e i ragazzi che desiderano ricevere un aiuto non sanno a chi rivolgersi; il problema, purtroppo, non è stato compreso e, in molti casi, nemmeno gli stessi addetti ai lavori (psicologi, psichiatri ecc.) tendono a sottovalutarlo, confondendo la situazione di questi ragazzi con altre patologie come per esempio la dipendenza da internet, la depressione, ecc.
In realtà, essere un hikikomori non è una malattia né una sindrome sociale, ma piuttosto una scelta di vita dettata dall’incapacità di assumere un ruolo nella società. Questa scelta talvolta è vissuta con l’ansia per il desiderio di volerne uscire; mentre in altri casi sono gli stessi ragazzi a rifiutare l’aiuto offerto dai genitori sostenendo di stare bene e di voler vivere in questo modo.
E’ innegabile che il fenomeno hikikomori abbia bisogno di maggiore attenzione in quanto, trattandosi di un qualcosa assolutamente nuovo in Italia, risulta ancora sconosciuto; non può, tuttavia, essere ignorato anche perché chi lo vive ha bisogno d’aiuto ora e non può aspettare che la società riconosca ufficialmente il problema.
In internet è nata una comunità che raccoglie ragazzi hikikomori e genitori, si chiama “Hikikomori Italia” con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica intorno ad un disagio che viene troppo spesso confuso con l’inettitudine e la mancanza di iniziativa delle nuove generazioni.
Quello degli hikikomori non è l’unico fenomeno sociale che riguarda persone in fuga dalla propria identità pubblica e incapaci di gestire le pressioni connesse alle relazioni interpersonali. Esistono altre due tendenze dette “ghosting” e “johatsu”, apparentemente lontane dallo hikikomori, ma che originano dalla medesima matrice: la paura del giudizio.
Il fenomeno del “ghosting”, ovvero “diventare un fantasma”, si riferisce a quelle persone che interrompono repentinamente una relazione importante e strutturata, in particolare di stampo amoroso e sentimentale, senza comunicarlo all’altro, ma semplicemente scomparendo nel nulla.
Ciò è reso possibile dal fatto che la maggior parte dei rapporti interpersonali moderni sono largamente mediati dagli strumenti digitali, in particolare chat di messaggistica e social network, e per decidere di non vedere né sentire più una persona spesso basta bloccarla attraverso queste applicazioni.
Alla base del ghosting vi è il medesimo istinto che porta l’hikikomori a isolarsi: l’istinto di fuga e la paura dell’inadeguatezza. Non scappiamo più da animali feroci o dai nemici, come accadeva in passato, ma dal giudizio: gli occhi, le parole e le reazioni dell’altro ci fanno terribilmente paura a tal punto da arrivare a nasconderci piuttosto che affrontarle. Un comportamento completamente irrazionale e istintuale, simile a quello di un bambino che si mette le mani davanti agli occhi per fuggire da un presunto pericolo.
Gli johatsu, gli “evaporati”, ovvero quelle persone che spariscono nel nulla, abbandonando tutto e tutti, compresi i parenti più stretti. L’obiettivo in questo caso è quello di poter ricominciare la vita da zero, eliminando completamente tutti i fallimenti sociali connessi alla propria identità pubblica e ripartire con una nuova identità (anche in questo caso il termine è di origine giapponese poiché sembra essere una pratica particolarmente diffusa nel paese nipponico) come accade nel mondo online, dove possiamo eliminare un account e ricrearlo da zero, con un nuovo avatar, ogni volta che lo desideriamo. Oggi questa sembra essere una tendenza sempre più frequente anche nella vita offline, a tal punto che in Giappone il fenomeno degli Johatsu ha dato vita a un vero e proprio business, con la nascita di strutture specializzate “nell’evaporazione”, compreso il servizio di trasloco notturno per quei beni che si desidera portare con sé nella nuova vita.
A primo impatto, questa pratica potrebbe essere scambiata con una potenziale soluzione allo hikikomori o meglio di un’alternativa appannaggio esclusivo di coloro che, nonostante l’alto tasso di sofferenza legata alla propria immagine pubblica, abbiano comunque le competenze sociali (e la disponibilità economica) per ripartire da zero senza alcun tipo di supporto familiare e/o sociale.
In realtà per gli hikikomori sparire non basta, poiché le fragilità sociali, nonché la parte istintuale della paura del giudizio, rimarrebbero nonostante la nuova identità “ripulita” da colpe e fallimenti pregressi.
Eppure è indubbio che la possibilità di cambiare completamente contesto sociale possa aiutare ad alleggerire quella pressione derivante dallo stigma sociale connesso al “tempo perso”, ovvero al fatto che siamo stati isolati e non abbiamo utilizzato quel tempo per lavorare, studiare, relazionarsi e, in generale, realizzarci socialmente.
Questi fenomeni, dallo hikikomori, al ghosting e allo johatsu, sono evidentemente diversi, ma originano da un medesimo contesto sociale, estremamente pressante e dove il fallimento non è ammesso.
Non è ammesso deludere i compagni di classe, gli insegnanti o i genitori, come nel caso degli hikikomori. Non è ammesso deludere il partner, come nel caso del ghosting. Non è ammesso deludere niente e nessuno, compresi i vicini di casa, per cui l’unica soluzione è quella di scomparire e riapparire da un’altra parte, come nel caso degli johatsu.
Quali le soluzioni?
Utile sarebbe l’inserimento dello psicologo come figura stabile nelle scuole, allo scopo di sviluppare condizioni che favoriscano le relazioni interpersonali per favorire il dibattito e la creatività.
Importante anche promuovere e sviluppare nei ragazzi la capacità di agire attivamente attraverso di problem solving; organizzare incontri per genitori dove sia possibile confrontarsi, interrogarsi e condividere preoccupazioni e paure; diffondere una cultura tesa a far accettare il fallimento come una possibilità, come un’occasione da sfruttare per crescere e non come un qualcosa di definitivo.
In breve, per contrastare il fenomeno, occorre agire sulle cause strutturali, creando un contesto dove i giovani abbiano la possibilità e il desiderio di studiare, lavorare e vivere appieno come cittadini.
Sitografia:
https://www.regione.umbria.it
ARPAL UMBRIA PIANO DELLE ATTIVITA’ 2020
https://www.unicef.it
https://www.elle.com/it/emozioni/a5253/hikikomori-e-neet/
https://www.huffingtonpost.it/entry/hikikomori-in-aumento-con-la-pandemia-molti-giovani-non-torneranno-a-scuola_it_60229572c5b6d78d4449ef4b?fbclid=IwAR0_Owrj7I0_hoNYOsb-sX59ncT9SfiHvC7iF_WtRPj-qoI1D-KOi-RgGUE
https://www.open.online/2021/02/02/covid-19-scuola-effetti-dad/
https://www.nippon.com/ru/japan-topics/c07401/
Hikikomori, è boom anche in Italia: migliaia di giovani si recludono in casa
In Giappone è allarme Hikikomori, il disagio mentale che tiene chiuse in casa 500.000 persone
https://www.japantimes.co.jp/article-expired/#.WlOli1SFii5