COESIONE SOCIALE E CODICE DEGLI APPALTI

COESIONE SOCIALE E CODICE DEGLI APPALTI

Tempo di riforme

Con sentenza del 2012, n. 199, la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’art. 4 del c.d. Pacchetto anticrisi (d.l. n. 138) varato dal Governo il 13 agosto dell’anno precedente, poi ripreso dall’art. 25 del decreto liberalizzazioni n. 1 del 2012, per contrasto con gli esiti del referendum del 12 e 13 giugno 2011, nel quale ventisette milioni di italiani optano per la gestione pubblica dei servizi locali votando contro la legge Ronchi (che rendeva cogente l’obbligo di affidare mediante procedura ad evidenza pubblica il servizio di trasporto locale, di captazione, depurazione e distribuzione dell’acqua, di raccolta e smaltimento dei rifiuti).

A oltre dieci anni dagli esiti della consultazione referendaria, indicativa della volontà degli italiani di sottrarre i servizi pubblici locali a rilevanza economica alle logiche e regole di mercato privato (in quanto satisfattivi di diritti primari, costituzionalmente riconosciuti e garantiti), si assiste, nel silenzio dei mezzi di informazione e dell’opinione pubblica (piuttosto distratta dalle questioni di validità e utilità del green pass, che sembra aver monopolizzato le discussioni), al surrettizio tentativo di reintrodurre una previsione normativa analoga a quella già censurata dalla Consulta e dalla volontà popolare.

Si tratta del disegno di legge Concorrenza, collegato alle riforme in materie di concorrenza che il Governo si è impegnato ad approvare con l’adozione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

La proposta normativa è volta, almeno nel dichiarato, ad assicurare maggiori qualità ed efficienza nell’erogazione dei servizi pubblici locali, prevedendo una serie di norme (la cui adozione è delegata al Governo) finalizzate a definire un quadro regolatorio più coerente con i principi del diritto europeo.
In questa prospettiva si conferisce delega a introdurre norme di ridefinizione della disciplina dei servizi pubblici locali; razionalizzazione del ricorso, da parte degli enti locali, allo strumento delle società in house; modifica della disciplina in materia di trasporto pubblico non di linea, anche al fine di adeguare l’attuale assetto del servizio alle innovative forme di mobilità; incentivo dell’affidamento dei servizi di trasporto pubblico locale e regionale mediante procedure di evidenza pubblica; e potenziamento dei controlli in sede di costituzione di nuove società in house da parte delle amministrazioni pubbliche.

In sostanza, nell’art. 6 del disegno, si paventa l’intenzione di una  privatizzazione dei servizi pubblici locali e alla definitiva metamorfosi del ruolo dei Comuni in subiecta materia.
Se, da un lato, infatti, le finalità mostrate sono quelle di consentire l’apertura dei mercati «per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini», dall’altro si introduce una norma che sottopone alle regole del mercato e, quindi, alla privatizzazione tutti i servizi pubblici locali senza alcuna esclusione.
Ribaltando la funzione dei Comuni, il disegno di legge (par. a) riconduce l’individuazione delle attività di interesse generale alla competenza esclusiva dello Stato, da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza, e ne separa (par. b) le funzioni di gestione da quelle di controllo.
Mentre all’affidatario privato viene richiesta una relazione annuale sui dati di qualità del servizio e sugli investimenti effettuati, l’Ente locale che scelga di gestire in proprio un servizio pubblico a rilevanza economica dovrà: produrre «una motivazione anticipata e qualificata che dia conto delle ragioni che giustificano il mancato ricorso al mercato» (par. f); tempestivamente trasmetterla all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (par.g); prevedere sistemi di monitoraggio dei costi (par. i); procedere alla revisione periodica delle ragioni per le quali ha scelto l’autoproduzione.

La logica che muove l’intero disegno di legge è quella di prediligere il definitivo affidamento al mercato dei servizi pubblici essenziali, nonostante la realtà dei fatti dimostri come non sia sempre e necessariamente ottimale una gestione privatistica degli stessi: aumento delle tariffe; investimenti insufficienti; aumento delle perdite delle reti, dei consumi e dei prelievi, carenza di depurazione – nel caso del servizio idrico – diminuzione dell’occupazione, diminuzione della qualità del servizio, mancanza di democrazia depongono per questo approdo.

Ma vi è di più.

La nuova regolazione prevede anche incentivi e premialità per favorire le aggregazioni, indicando così chiaramente che il modello gestionale per il quale il legislatore ha espresso la propria predilezione è quello delle grandi società quotate in Borsa, che potrebbero così diventare soggetti monopolisti praticamente a tempo indefinito.

Tutto ciò in presunta attuazione di quanto previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Il combinato disposto tra PNRR, disegno di legge sulla concorrenza e decreto Semplificazioni (che pure riconosce poteri sostitutivi allo Stato) alimenta preoccupazioni in ordine all’effettivo rispetto della volontà popolare espressa con l’ultimo referendum. Il rischio è che, sull’altare della libera concorrenza o di assetti monopolistici, a perdere siano la sovranità popolare, la difesa di beni pubblici irrinunciabili e i diritti ad essi riconducibili.
Una posizione di equilibrio, aderente al piano di legalità costituzionale, sarebbe l’introduzione di limiti meno stringenti a carico dei Comuni per il caso in cui essi propendano per una gestione in house dei servizi pubblici essenziali a rilevanza economica al fine di ricondurre nella sfera di competenza dell’ente più prossimo ai cittadini la scelta sulle modalità di gestione ottimale del servizio, evitando di imporre un obbligo di privatizzazione attraverso l’introduzione di procedimenti con oneri motivazionali e amministrativi tanto complessi da scoraggiare una gestione pubblica locale degli stessi.



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