COME ‘CALCOLARE’ LA MERITOCRAZIA
Frammentazione e coesione sociale
Il termine ‘meritocrazia’ apparve per la prima volta nel 1958 nell’opera Rise of the Meritocracy (L’avvento della Meritocrazia), del sociologo britannico Michael Young.
Il termine serviva per tratteggiare lo scenario di un futuro in cui la posizione sociale di un individuo venisse determinata in base al suo quoziente intellettivo e alla capacità di lavorare. Nell’opera, la meritocrazia è la sintesi di talento e intelligenza emotiva e cognitiva da un lato e ambizione e sacrifici sostenuti per l’affermazione delle abilità dall’altro.
Si può dire, però, che la meritocrazia nacque ancora prima. Nel 1933, J. Conant, Presidente di Harvard, concepì l’ETS (Education Testing Service), grazie al quale fu istituito il SAT (un test attitudinale), che «permise di portare ogni giovane talento da ogni parte del Paese a laurearsi a Harvard, che si trattasse di un figlio di ricchi o che non avesse un penny, che abitasse a Boston o a San Francisco» (Conant).
Oggi, il termine meritocrazia è solitamente ricondotto al concetto di ‘competenza’ ed è riferito a quel complesso sistema di condizioni che consentono, in un certo Paese, di raggiungere obiettivi in linea con le proprie capacità e competenze indipendentemente da origini e appartenenze.
Ciò posto, è diffusa la sensazione che l’Italia sia oggi un Paese poco ‘meritocratico’.
Pochi sanno, però, che questa percezione ha un fondamento scientifico. Circa due anni fa è stato istituito il c.d. ‘meritometro’, uno strumento pensato da alcuni ricercatori dell’Università Cattolica di Roma e usato per misurare nel modo più oggettivo possibile il grado di meritocrazia del Paese.
La ricerca ha coinvolto 12 Paesi – Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Italia, Norvegia, Olanda, Polonia e Svezia – e si è basata su indicatori statistici elaborati da diverse organizzazioni internazionali, costituenti i pilastri della Meritocrazia. Pilastri generalmente ricondotti a libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza e mobilità.
Le due rilevazioni già svolte hanno dimostrato come l’Italia sia ultima non solo relativamente alla misura sintetica di meritocrazia ma anche rispetto a tutte le sue singole componenti. Le performance peggiori si registrano nell’ambito della trasparenza, delle regole, della libertà e delle pari opportunità.
È emerso anche che i Paesi caratterizzati da un sistema sociale ed economico più meritocratico risultano più attrattivi nei confronti dei talenti ma anche più coesi.
Una società meritocratica è una società sicuramente più coesa.
Ma cosa si intende per coesione sociale?
Sebbene il concetto di coesione sociale sia presente in sociologia fin dai tempi di Durkheim, è nel corso degli ultimi anni che ha assunto un ruolo davvero rilevante nella ricerca economica, sociologica e politologica.
Muovendo dalla definizione di Durkheim – che enfatizzava la coesione sociale come «interdipendenza tra i membri della società», «lealtà condivisa» e «solidarietà» –, Berger-Schmitt si è interrogato sulle dimensioni analitiche maggiormente utilizzate nelle definizioni più recenti, ravvisando alcuni elementi comunemente associati alla coesione sociale: forza delle relazioni sociali, valori condivisi, sentimenti di appartenenza e di identità comuni a una stessa società, fiducia, livelli di disuguaglianza all’interno della comunità. Berger-Schmitt propone una definizione di coesione sociale che poggia su due elementi centrali: «la riduzione delle disparità, diseguaglianze ed esclusione sociale» e «il rafforzamento delle relazioni sociali, delle interazioni e dei legami».
Un terzo contributo di rilievo è quello di Jane Jenson, che propone una rassegna ragionata delle applicazioni del concetto, focalizzandosi soprattutto sulla relazione tra coesione sociale e politiche sociali, e che osserva che la coesione sociale per lungo tempo non è stata considerata come nozione autonoma, ma come strumento per riformare le politiche economiche al fine di minimizzare le disuguaglianze (economiche prima ancora che sociali).
Sotto questo profilo, la coesione sociale è sinonimo di stabilità sociale ed equilibrio.
Per quanto riguarda l’analisi empirica – ossia la costruzione di un indicatore composito di coesione sociale –, un riferimento importante è al BES (Benessere Equo e Sostenibile) proposto dall’Istat.
Il progetto per misurare il BES fa parte del dibattito internazionale sul tema ‘Non solo PIL’. L’idea centrale è che i parametri economici da soli non siano sufficienti per valutare il progresso delle società e dovrebbero essere integrati da informazioni sociali e ambientali e da misure di uguaglianza e sostenibilità.
E, in materia di coesione sociale, l’Italia non risulta essere divisa a metà come si crede, addirittura di contano ‘5 Italie’, ‘5 Macroaree’. Le Regioni italiane sono state divise in cinque gruppi, distinti i gruppi a coesione sociale alta, media, limitata e molto limitata.
La frammentarietà dei territori sotto il profilo della coesione sociale rispecchia anche le disparità nel livello di meritocrazia presente nel Paese.