Criminalità giovanile
Il dramma di una società giustizialista
Il sociologo francese Durkheim sostiene che «non bisogna dire che un atto che urta la coscienza comune sia criminale, ma è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo».
Per criminalità s’intende un tipo di attività umana caratterizzata dalla ripetuta violazione di regole o leggi, per la quale una certa autorità costituita può, in ultima analisi, prescrivere una pena.
La ‘criminalità minorile’, in particolare, è un fenomeno che, come dimostrano i dati nazionali, è cresciuto a dismisura negli ultimi decenni.
Parliamo di ragazzi fino ai diciassette anni che, soprattutto a causa di contesti familiari problematici (anche economicamente), provenienza da aree periferiche disagiate (come quelle delle grandi città) o da minoranze etniche non integrate e da contesti a basso livello di scolarizzazione, tendono ad assumere comportamenti c.dd. devianti.
Ciò è fisiologico in un quadro di anomia del gruppo sociale di riferimento oppure quando ci si trova in linea con la subcultura criminale di un certo gruppo, spesso soggetto a isolamento da parte della società ‘non deviante’.
Si nota che, mentre prima era molto avvertita l’esigenza di dare supporto nel reinserimento dei ‘minori problematici’, soprattutto tra gli anni ’60 e ’80, oggi la situazione è percepita diversamente.
Negli ultimi due decenni un dilagante giustizialismo ha amplificato la preoccupazione di assicurare la distribuzione delle sanzioni. Punire è diventato molto più importante che rieducare e reinserire.
Da più lati sono avanzate proposte di revisione del limite di punibilità (oggi previsto nei 14 anni) e del carcere come ultima soluzione.
Meno si discute dell’opportunità di potenziare e promuovere interventi di recupero.
Il sistema di carcerazione e recupero del reo, come da dettato costituzionale, funziona sicuramente meglio nel caso in cui il reo sia un minore e, per vero, attualmente non risulta avvertito il bisogno di una riforma radicale del sistema normativo. Il problema è piuttosto culturale e di approccio applicativo.
In altri Paesi europei, soprattutto nord e centro Europa, la situazione è ben più preoccupante.
Il limite d’età per la punibilità è molto basso: in Scozia è a 8 anni, in Inghilterra 10. Una misura drastica e pesante che non sembra avere utilità deterrenti. In questi Paesi, infatti, la percentuale di minori in carcere resta più alta che in Italia, più propensa alle comunità di recupero nelle quali i ragazzi possono studiare e imparare un mestiere.
A conti fatti, sistemi maggiormente punitivi non risultano davvero efficaci dal punto di vista della prevenzione.
La funzione rieducativa della pena deve essere effettiva soprattutto quando il reo è molto giovane.
Analizzando il dato nazionale, i contorni della questione sono differenti secondo l’area territoriale di riferimento.
La criminalità minorile si concentra maggiormente (per il 42%) nelle 14 aree metropolitane (con il 40% è nel nord Italia, il 25% al sud, il 19% nel centro e il 16% nelle isole). Nel centro-nord si registra la presenza sia di minori stranieri che di italiani (che sono la maggioranza), mentre nel sud per il 90% la componente criminale minorenne è autoctona.
Per il 20%, i minori detenuti sono coinvolti nello spaccio di droga; vengono sfruttati a tal fine nei luoghi di aggregazione sociale e sul Web.
La Rete si presta particolarmente a favorire l’incrocio tra domanda e offerta di sostanze illegali. Un problema che potrebbe essere risolto inserendo internet tra gli indicatori di monitoraggio del traffico di droga, anche a livello internazionale, e con più intense campagne di informazione e sensibilizzazione.
Per altro verso, la criminalità si presta anche a fenomeni aggregativi, le c.dd. baby gang.
Generalmente la composizione di questi gruppi è piuttosto omogenea, per provenienza sociale, contesti culturali, condizione scolastica o lavorativa, ma anche per look, linguaggio, modalità di interazione e stili di comportamento.
L’aggregazione minorile attorno ad attività illegali esiste da sempre, ma il fenomeno sembra essersi amplificato con l’utilizzo dei social, che hanno come effetto quello di promuovere processi imitativi e contagio sociale; si prestano a venire usati come vera e propria vetrina attraverso la quale rinforzare il proprio status e porsi in aperta sfida nei confronti delle autorità.
La verità è che di frequente i giovani che commettono atti devianti provengono da contesti di disagio o cercano un modo per sopperire alla noia e riempire giornate vuote. È anche la deriva estrema del fenomeno dei neet, che assume dimensioni allarmanti.
Non mancano anche ragazzi provenienti da contesti di agio e benessere, che, pure non in difficoltà economica, cercano di sopperire a un vuoto interiore tramite condotte eclatanti e di rottura rispetto agli schemi convenzionali.
Certamente potrebbero essere utili, in prospettiva di prevenzione, iniziative volte a ridar vitalità a contesti periferici e degradati, con promozione di attività sportive e volte a stimolare la creatività e coinvolgimento dei giovani nelle attività di recupero dell’ambiente condiviso.
Contro ogni minimizzazione o demonizzazione, la questione va affrontata sul piano del recupero e della prevenzione.
Importante sarebbe, per questo, anche prevedere l’introduzione dello psicologo come figura stabile presso ogni Istituto scolastico.