CRONACA DI UNA DENUNCIA ANNUNCIATA
Lavoro in nero e reddito di cittadinanza
L’articolo vuole evidenziare come attraverso un meccanismo di incrocio telematico, e quindi celere, da parte della p.a. di griglie-dati dei richiedenti il beneficio del reddito di cittadinanza, si evitino abusi del suddetto strumento, prevenendo così ulteriori costi a carico dello Stato, che ad oggi pone in essere solo controlli ex post suffragati da mere autocertificazioni.
Giungono notizie delle prime segnalazioni all’Autorità giudiziaria ed all’INPS in merito ai soggetti che, dopo aver chiesto il reddito di cittadinanza, sono stati trovati intenti al lavoro o sono risultati percettori di redditi non dichiarati.
Si sono dimostrate, altresì, fondate le critiche di quanti avevano evidenziato la possibilità di abuso del suindicato strumento, che nasce da principi assolutamente condivisibili, ma si espone a reiterati abusi. La ratio di tale reddito non è quella di finanziare il cittadino che non lavora, bensì quella di ‘accompagnare’ il soggetto verso la totale inclusione socio-economica nonché lavorativa.
In tal guisa è anche necessario, una volta riconosciuti i requisiti per l’accesso al reddito, seguire corsi di formazione, aderire ad offerte di lavoro proposte dai centri d’impiego, svolgere attività utili alla collettività e, necessariamente, comunicare ogni variazione del reddito, pena perdita del beneficio.
Il suddetto reddito potrebbe, quindi, essere visto come il primo germoglio di un nuovo welfare, atteso che si tratta di una misura previdenziale della quale potrebbero beneficiare tutti i cittadini italiani, ma quali persone e non lavoratori.
È altresì vero che il funzionamento di tale strumento dovrebbe passare attraverso il serrato controllo da parte dello Stato. Invero, attualmente, tale supervisione è meramente formale, ovvero si basa su dati forniti dall’interessato stesso, quali autocertificazioni nonché modello ISEE.
Ma controllare ex post un milione di domande, quanto personale occupa? Sono state fatte valutazioni in merito?
Là dove si dovessero riscontrare brogli, circa le dichiarazioni rese, si darebbe la stura ad una quantità innumerevole di contenzioso amministrativo e giudiziario. Inoltre, si aggiunga che tali richiedenti sono, per definizione, persone sprovviste di reddito, per cui, in caso di richiesta, non si potrebbe non riconoscere loro, almeno in prima battuta, il beneficio del ‘gratuito patrocinio’.
Ergo, nell’immediato, vi sarebbe un’ulteriore spesa a carico dello Stato.
Ma vi è di più: a fronte di oltre 1.000.000 di domande presentate al 30 aprile 2019, dati ufficiali INPS, anche ipotizzando una percentuale prudenziale del 10% di domande sottoposte al vaglio dell’autorità giudiziaria per presunti brogli, si graverebbero le già oberate Procure della Repubblica di 100.000 nuovi procedimenti.
La soluzione all’imperversare di tali storture potrebbe essere quella di mettere in comunicazione tutte la banche dati di cui la p.a. è già in possesso: quelle dell’INPS, dell’Anagrafe Tributaria, del PRA, del Catasto, dei rapporti finanziari, solo per citarne alcune.
Ebbene si potrebbero quindi incrociare questi dati in modo da fare una selezione sostanziale, preventiva nonché celere (atteso che sarebbe esclusivamente telematica), corrispondendo così solo a chi ha effettivo diritto il beneficio. Evitando di conseguenza controlli successivi esosi, eventuali e con esiti a dir poco incerti quanto all’effettivo recupero delle somme indebitamente corrisposte.
D’altra parte non vi è chi non veda come la fortuna e l’effettiva capacità di raggiungere gli scopi prefissi di questa nuova misura, passino necessariamente attraverso la repressione, nei limiti del possibile, degli abusi al fine di non generare l’inevitabile tensione sociale che deriverebbe nello scoprire che alcuni hanno sostenuto, con le imposte pagate, chi in realtà non versava in stato di indigenza.
Di GIULIANA ALBARELLA