DAL DIGITAL DIVIDE ALLA DIGITAL INCLUSION
Divario assoluto e relativo: problemi e soluzioni
A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso comincia a diffondersi la presa di coscienza che il mancato utilizzo di internet può essere fonte di disuguaglianza sociale. Da qui, l’esigenza di avviare specifiche politiche pubbliche volte a garantire effettive condizioni di accesso alla Rete, per il superamento del gap fra gli information haves e gli havenots, del c.d. digital divide.
Studiando il fenomeno, per intervenire al meglio, è possibile distinguere due profili di rilevanza:
– assenza di copertura in termini di connessione adeguata (anche digital divide infrastrutturale),
– scelta di non avere un abbonamento a internet (anche digital divide culturale).
Allo stato non esistono previsioni normative a garanzia della copertura di banda larga. Vi è soltanto un riferimento alla connessione base dial-up (semplice presenza della linea telefonica, questa sì garantita). La questione è all’attenzione di AGCom e stakeholder ormai da tempo. L’idea in discussione è quella di prevedere un obbligo di copertura da parte dell’operatore dominante, sovvenzionato da un fondo comune tra gli operatori (ora usato per assicurare la copertura della linea telefonica universale).
Sul punto merita di essere menzionata una coraggiosa decisione del Giudice di Pace di Trieste [30 luglio 2012, n. 587], che, chiamato a valutare il caso di una famiglia rimasta senza collegamento ADSL per 4 mesi, qualifica espressamente internet bene fondamentale per ogni aspetto della vita quotidiana, affermando che «Ormai da tempo la giurisprudenza è orientata nel ritenere che il distacco o il mancato allaccio della linea telefonica e internet costituiscano un danno patrimoniale e esistenziale per il titolare del contratto e della sua famiglia, danno considerato particolarmente grave in un’epoca in cui la comunicazione è fondamentale in ogni aspetto della vita quotidiana».
Il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite, con l’approvazione della risoluzione A/HCR/20/L.13, considera l’accesso alla Rete diritto fondamentale dell’uomo, ricompreso nell’art. 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Il problema è avvertito largamente, e investe tutte le fasce d’età.
È vero che i più giovani hanno maggiore confidenza con l’uso della tecnologia, ma non vanno comunque esenti da difficoltà, che, è fatto, investono prevalentemente coloro che, per ragioni diverse, non riescono a raggiungere livelli di istruzione adeguati. D’altra parte, a giudicare dai dati a disposizione sulla navigazione in Rete da parte dei giovani, è ipotizzabile che esista anche un significativo segmento di ragazzi che, pur avendo potenzialmente le competenze per farlo, preferisce non utilizzare, o farlo sporadicamente, le ICT per motivi di varia natura.
A ogni modo, le ICT occupano un posto importante nella vita dei giovani italiani: il 94% possiede un computer a casa (numero sicuramente aumentato in conseguenza del ricorso imposto alla dad) che nell’80,8% dei casi viene utilizzato tutti i giorni o quasi. La stragrande maggioranza dei ragazzi (70,8%) ha imparato in autonomia ad usare il pc, ma non va sottovalutata la presenza di una consistente minoranza che ha imparato a usarlo a scuola (il 16,1%). È un segnale che, sia pur lentamente, si sta iniziando a lavorare per adeguare i percorsi formativi scolastici alle nuove esigenze imposte dalla modernità.
C’è ancora tanto da fare.
Sarebbero necessarie più ore di studio dell’informatica a partire già dalle elementari e per ogni grado di istruzione. Questo vorrebbe dire anche maggiore impegno nell’aggiornamento della formazione anche dei docenti.
Ottima e funzionale sarebbe anche l’organizzazione di corsi pomeridiani o serali per i genitori. Non possono non aver insegnato qualcosa gli iniziali disagi creati dalla dad. I genitori sono stati una figura portante in tutti i mesi passati in didattica a distanza, soprattutto per gli alunni delle elementari, bisognosi di essere seguiti assiduamente e guidati nell’uso del computer.
Quello che si vuol dire è che il c.d. divario digitale relativo è il riflesso di squilibri sociali già esistenti nel sistema sociale e, dunque, che, per superarlo, serve agire innanzi tutto sulle cause di questi squilibri di carattere generale. La Scuola è inevitabilmente il punto di partenza. La formazione professionale e l’Università sono parimenti essenziali per una più equa distribuzione delle opportunità.
Ma, si diceva, esiste anche un divario digitale assoluto, determinato da scelte di chi, pur avendo le competenze e l’istruzione formale di base che in astratto favoriscono l’accesso, non ne profittano perché privi di quegli stimoli culturali che possano supportare una disponibilità per così dire informale per il sapere, per la conoscenza e per l’apprendimento prima che per il completamento (formale) di un corso di studi.
Ancora una volta, l’ostacolo può essere superato soltanto diffondendo, attraverso più moderni percorsi formativi e una riprogrammazione dei mass-media, una concezione meno convenzionale della cultura, da intendere come processo dinamico proiettato verso un continuo rafforzamento di un sapere non necessariamente finalizzato sul piano pratico o operativo, ma anche alla crescita spirituale in senso lato.
Mentre per il divario digitale relativo, insomma, occorre intervenire sulle disuguaglianze (e qui il sistema formativo può giocare un ruolo importante), per quello assoluto serve agire in maniera trasversale alle diverse condizioni sociali, attraverso il radicamento di una cultura non puramente nozionistica, ma fondata sulla consapevolezza dell’esigenza del dialogo e del network come fattori a un tempo di socializzazione e di crescita, in un processo di apprendimento collettivo e sociale che rappresenta la vera sfida della società della conoscenza.
In definitiva, i temi dell’accesso e dell’uguaglianza digitale assumono una rilevanza decisiva nella società attuale, e non si può più sfuggire alla scelta di riconoscere un diritto di accesso a internet nell’ambito dei valori universali e inderogabili, prendendo atto, a un tempo, degli straordinari benefici derivanti dall’uso generalizzo e consapevole delle nuove tecnologie digitali e della necessità di promuoverne un uso consapevole e responsabile, innegabili le insidie nascoste nella Rete.
Con l’avvento della Società dell’Informazione, se, da un lato, grazie alla disponibilità di servizi ICT, aumentano le opportunità di sviluppo offerte dalle tecnologie digitali per coloro che sono nelle condizioni di fruire di tali risorse, al contempo, dall’altro lato, si corre il rischio di limitare tali opportunità soltanto in favore di pochi privilegiati (i c.dd. inclusi digitali), in grado di sfruttare i vantaggi della Società dell’Informazione, a discapito dei c.dd. esclusi digitali.
Poter considerare internet bene comune significa fare in modo che tutti possano avere un accesso libero e paritario.
È il momento che il concetto di digital divide lasci il posto a quello di digital inclusion, perché l’accesso paritario alla Rete porta con sé una parte importante dell’equità sociale da ripristinare.
Risolto questo problema, sarà necessario fare i conti anche con i risvolti della net neutrality, perché l’incontrollato potere dei gestori della Rete potrebbe avere un devastante impatto sulla sfera relazionale, economica, educativa dei singoli, ma anche sulla comunità.
FONTI:
ISFOIL – Il divario digitale nel mondo giovanile