DECRETO LEGGE ANTI DELOCALIZZAZIONI
Luci e ombre
È in arrivo sul tavolo del Consiglio dei Ministri la bozza del decreto legge anti delocalizzazioni che si appresta ad introdurre misure che impatteranno significativamente sulle imprese con almeno 250 dipendenti, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che intendano procedere alla chiusura di un sito produttivo ubicato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività, a fronte di ragioni non determinate da squilibrio economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza.
Tale provvedimento allo studio del Ministro del Lavoro ha il dichiarato intento di contrastare una ormai diffusa strategia seguita da alcune multinazionali straniere, le quali spesso decidono di avviare un’attività in Italia per il solo tempo necessario ad usufruire di alcune agevolazioni, per poi, dopo breve tempo, chiudere lo stabilimento con pesanti ricadute sul tessuto occupazionale e produttivo italiano.
A tal fine, la bozza del decreto pone in capo all’impresa che decide di chiudere una serie di oneri burocratici di non scarsa rilevanza.
Si va dall’obbligo di comunicazione preventiva e per iscritto del progetto di chiusura del sito produttivo al Ministero del Lavoro, al Ministero dello Sviluppo Economico, all’Anpal, alla Regione nel cui territorio è ubicato il sito da chiudere, alle Rsa e alle associazioni di categoria. In mancanza delle predette rappresentanze, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La comunicazione alle associazioni di categoria può essere effettuata per il tramite dell’associazione dei datori di lavoro alla quale l’impresa aderisce o conferisce mandato e sempre prima dell’eventuale avvio della procedura di licenziamento collettivo.
Previsto, inoltre, l’obbligo di indicare le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura.
Importante l’obbligo di presentare, entro 90 giorni, presso il ministero dello Sviluppo Economico, un «piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo».
Il piano deve indicare:
a) le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa, le misure di politica attiva del lavoro, quali servizi di orientamento, assistenza alla ricollocazione, formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego;
b) le prospettive di cessione dell’azienda o dei compendi aziendali con finalità di continuazione dell’attività, anche mediante cessione dell’azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite;
c) gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato;
d) i tempi, le fasi e le modalità di attuazione delle azioni previste.
Per l’elaborazione del piano, l’impresa può avvalersi di soggetti specializzati in materia digestione aziendale, ricerca e attrazione di investimenti, politiche finanziarie e fiscali e di progettazione nell’ambito dei programmi di finanziamento europei, nazionali o regionali.
Entro trenta giorni dalla presentazione del piano, l’impresa viene convocata per l’esame e la discussione dello stesso, con la partecipazione dell’ANPAL, della Regione e delle organizzazioni sindacali.
La struttura per la crisi d’impresa conclude l’esame del piano entro trenta giorni dalla sua presentazione. Il termine per la conclusione dell’esame può essere prorogato di trenta giorni con l’accordo di tutte le parti. Successivamente la struttura per la crisi d’impresa, sentite le organizzazioni sindacali e l’Anpal, approva il piano qualora dall’esame complessivo delle azioni in esso contenute risultino sufficienti garanzie di salvaguardia dei livelli occupazionali o di rapida cessione dei compendi aziendali.
Con l’approvazione del piano, l’impresa assume l’impegno di realizzare le azioni in esso contenute nei tempi e con le modalità programmate e a effettuare le comunicazioni previste ai fini del monitoraggio. La procedura di licenziamento collettivo non può essere avviata prima della conclusione dell’esame del piano.
Le misure predisposte dal provvedimento in esame, tra l’altro, risultano sorrette da un impianto sanzionatorio degno di nota. Infatti, in caso di mancata presentazione del piano entro il termine previsto o di mancata approvazione, l’impresa che avvia la procedura di licenziamento collettivo, come conseguenza della chiusura del sito produttivo, è tenuta a versare per ogni risoluzione di rapporto di lavoro un ticket licenziamento in misura incrementata di dieci volte e alla stessa è precluso l’accesso a contributi, finanziamenti o sovvenzioni pubbliche per un periodo pari a cinque anni.
È previsto, in caso di presentazione e approvazione del piano, con cadenza almeno mensile, un monitoraggio dello stato di attuazione, del rispetto dei tempi e delle modalità di attuazione, nonché dei risultati delle azioni intraprese. Qualora dal monitoraggio emerga il mancato rispetto degli impegni assunti e dei tempi e delle modalità di attuazione del piano, all’impresa che avvia la procedura di licenziamento collettivo saranno applicate le sanzioni sopra evidenziate.
Già da una prima lettura della bozza del decreto, emerge che il provvedimento in esame non sembra rispondere bene alle attuali esigenze del tessuto imprenditoriale italiano, ponendo in capo alle imprese ulteriori oneri, difficilmente giustificabili alla luce dell’attuale contesto economico e produttivo.
Infatti, occorre sottolineare come le imprese, allo stato attuale, necessitino piuttosto di strumenti utili a favorirne la crescita e, con essa, in grado di rendere maggiormente agibile e flessibile l’assunzione di personale da parte delle stesse.
Va da sé che ulteriori misure volte a precluderne ulteriormente la libertà di iniziativa economica appaiono anacronistiche e non al passo coi tempi, ponendo in essere un’ulteriore stretta a scapito sia dell’impresa che dei lavoratori stessi. Analizzando poi le singole disposizioni contenute nella bozza del provvedimento in esame, è evidente come saranno ancora una volta le imprese di medie dimensioni a sortire maggiormente gli effetti delle misure in esso contenute.
Infatti, se l’intento del provvedimento è quello di impedire, sulla scia di alcune esperienze verificatesi nella realtà, azioni speculative da parte di alcune multinazionali che decidono di aprire in Italia per un breve arco temporale, al solo fine di godere di alcune agevolazioni, al contrario, per le imprese di medie dimensioni la delocalizzazione costituisce una necessità tanto da risultare maggiormente sensibile all’iter burocratico – nonché all’apparato sanzionatorio – previsto dalla bozza di decreto.
A ciò si aggiunge un’ulteriore considerazione non trascurabile: tali misure sortirebbero l’effetto finale di contrarre ulteriormente gli investimenti in Italia da parte delle aziende estere. Va da sé come gli adempimenti burocratici e i costi ad essi connessi spingerebbero le imprese d’oltralpe ad investire altrove, segnando un drastico calo della competitività per il mercato italiano e dell’occupazione.
È doveroso che le imprese che decidano di delocalizzare, forniscano spiegazioni e restituiscano i fondi pubblici eventualmente ottenuti; tuttavia, è opportuno anche che il legislatore persegua tale intento senza pregiudicare la libertà d’impresa e, con essa, gli investimenti esteri. Ed è proprio su tali ultimi aspetti che la bozza del decreto anti-delocalizzazioni non mostra approccio del tutto condivisibile, finendo per porre in essere l’ennesima e non giustificabile stretta contro le imprese.
L’Italia ha bisogno degli investimenti delle imprese estere sul suo territorio, di attrarre nuovi capitali e convincere a restare quelli che già presenti.
Fondamentale
– radicare la presenza delle multinazionali, creare un ambiente favorevole alla fidelizzazione delle imprese a capitale estero che già investono in Italia, attrarre nuovi investitori stranieri e favorire la competitività delle imprese italiane con misure ad hoc su fisco, lavoro e giustizia civile;
– creare un ente unico preposto a fare da tutor all’investitore straniero, raccordandosi con la rete estera per la promozione internazionale e con le Regioni per la parte di loro competenza;
– sviluppare infrastrutture, reti, servizi e misure di semplificazione, non più rinviabili, necessari per il recupero della competitività e della qualità del lavoro che caratterizzano l’impegno di tutte le multinazionali presenti nella nostra nazione”.
Seri e solidi progetti industriali a capitale estero sono un valore aggiunto per l’occupazione e per la stessa imprenditoria locale, così come dimostrato da numerosi esempi virtuosi che il Paese ospita.