DICONO CHE SI CHIAMI NORMALITÀ

DICONO CHE SI CHIAMI NORMALITÀ

Dicono che si chiami normalità.

Nessuno l’ha mai vista, ma tranquillo, troverai sempre qualcuno disposto a descrivertela. Se vuoi, posso provarci io.

La prima cosa che mi viene in mente sono i manichini nelle vetrine dei negozi. Sono lì, sempre alla moda, a dedicare sguardi incolori ai passanti, i corpi immuni alle imperfezioni e alla vecchiaia. Nessuno si sognerebbe mai di criticarne il peso, la pelle, l’etnia. Non hanno genere, né orientamento sessuale. Sono tutti uguali.

Molti manichini camminano per le strade. È probabile tu non li abbia notati, sono così anonimi da risultare invisibili. Non li biasimo, è la società che li ha creati, e d’altronde oggi esibire il badge della normalità è decisamente la scelta più comoda. La storia parla chiaro.

Da sempre sembra che le persone non riescano a trovare un fattore d’aggregazione diverso dall’odio. Hobbes sosteneva che fosse la paura reciproca a spingere gli uomini a organizzarsi in società e a darsi un ordine. Homo homini lupus, del resto.

La paura. Nel 1818 Mary Shelley dava alla paura la forma di una creatura sgraziata e repellente, e la chiamava mostro. Una creatura che finisce per desiderare la morte, piegata dal peso dello stigma sociale, del disprezzo che le sue sembianze gli hanno procurato tra gli uomini comuni, gli uomini normali. L’eredità di Frankenstein (o Il moderno Prometeo), d’altronde, è arrivata fino ai giorni nostri: il mito del mostro ha segnato cinema e letteratura, e non c’è uno di questi esseri immaginari che si mostri aggraziato o che non voglia divorarci vivi. L’arte ha sempre cercato di farsi camera di compensazione delle problematiche sociali.

Ciò che è sconosciuto ci fa paura, perché potrebbe farci del male. È ‘diverso’, quindi deve essere per forza pericoloso, per forza sbagliato.

È una logica strettamente legata alla fisionomia della società, perché è impossibile capire cosa sia diverso se prima non si individua la prospettiva da cui guardare, e questa finisce inevitabilmente per essere quella dell’upperclass, la classe dominante – “dittatrice”, diremmo assieme a Marx. Perché esiste ancora oggi, nonostante qui stia alludendo non tanto a un elitarismo economico, quanto culturale e storico.

Il diverso si presenta sotto molte forme – perché molte forme ha la realtà. Il rigetto più plateale avviene rispetto a fattori quali etnia, religione, e preferenze sessuali, certo, ma ho visto persone arrivare alle mani per molto meno, che fosse un tatuaggio, il rendimento scolastico o persino le abitudini alimentari. Se non è come me, c’è qualcosa che non va. Ed è incredibile quanto questa convinzione sia radicata nella nostra cultura, quanto difficile possa essere anche solo non provare riprovazione per la cravatta a fiori di quel passante, o trattenere i giudizi sul discutibile taglio di capelli di quell’altro.

La verità è che senza il particolare non potrebbe esistere il generale, che non c’è società senza singolo, e che ogni uomo ha qualcosa da dare all’altro proprio perché con l’altro condivide poco o nulla. Se è ciò che è sconosciuto a terrorizzarci, allora dovremmo imparare a conoscere.

Il 2 giugno 1946 in Italia le donne votano per la prima volta, nel referendum monarchia-repubblica che ha sancito il futuro del nostro Paese.

Il 5 novembre 2008 Barack Obama, un afro-americano, diviene Presidente degli Stati Uniti.

Il 20 maggio 2016 l’Italia disciplina con legge le unioni civili.

Questi sono i fari che devono guidarci. Sempre.

Prendiamo i colori, mischiamoli, e mettiamo su tela un mondo di gradienti e sfumature, perché, sai, questa cosa che chiamano normalità, in fondo, non è mai esistita.

Di MATTEO FACHECHI



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