DONNE E LAVORO IN SARDEGNA
Racconti della tradizione e attualità
“Per generazioni, le donne hanno lavorato come portatrici di pace, sia nelle loro famiglie che nelle loro società. Hanno fornito gli strumenti per la costruzione di ponti piuttosto che di muri” (Kofi Annan Segretario Generale delle Nazione Unite 8 marzo 2000)
La donna è da sempre pluricollocata e, più dell’uomo, ha subito le difficoltà derivanti dalle molteplici appartenenze, in primis la dicotomia tra famiglia e lavoro. Si parla di doppio ruolo e di doppia presenza per indicare la condizione esistenziale della donna continuamente divisa tra famiglia e lavoro, due dimensioni non solo sostanzialmente diverse ma spesso radicalmente contrapposte.
Alla base di questa concezione l’idea del femminile sempre associato al privato, al “dentro”, al mondo della casa e dell’amore; il maschile, al suo opposto, è abbinato al “fuori”, al pubblico e al potere.
Eppure la donna ha dimostrato di essere in grado di assumere ruoli e responsabilità che vanno oltre il privato, riuscendo a coniugare tempi del lavoro, tempi della famiglia e tempi della cura.
La realtà sarda
Non ci pieghiamo anche se il vento tira forte, non ci pieghiamo
nella tempesta e come giunchi balliamo e poi ci rialziamo fiere
con la schiena dritta. Noi donne sarde abbiamo lo sguardo sempre rivolto ad est,
e vediamo il sole anche attraverso le nuvole [Paola Pittalis Usini]
In Sardegna, la donna ha sempre rivestito un ruolo primario nella società, tanto da divenire fulcro e cuore pulsante di ogni comunità.
Le donne sarde, infatti, hanno sempre lavorato fin da giovani, gestito la vita familiare, risolto i problemi quotidiani: in casa, ma anche come tessitrici, ricamatrici, contadine, instancabili, irriducibili.
Forse sono state loro le prime vere “femministe”: basti pensare ad Eleonora D’Arborea, la regina guerriera, che lottò per liberare la Sardegna dai conquistatori e creò la famosa Carta De Logu; oppure a Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura, che seppe mostrare il suo talento in un’epoca in cui le donne non possedevano gli stessi diritti degli uomini; o a Maria Lai, proveniente da uno sperduto paesino di nome Ulassai, che a inizio ‘900 realizzò il sogno di diventare una grande artista, divenendo allieva del grande Arturo Martini nel pieno della seconda guerra, e trasformandosi in un’icona nella storia dell’arte contemporanea.
Sotto molti profili, la storia della Sardegna si discosta da quelle di altri territori, proprio grazie a quell’isolamento nel Mediterraneo che fu la sua condanna durante le piraterie e le dominazioni, ma anche un importante punto di forza, perché ha consentito di sviluppare una struttura interna, con regole tutte singolari allineate alla sua storia. Si racconta che, nella società sarda, e soprattutto del centro Sardegna, alle madri fosse affidato il controllo delle decisioni assunte dai figli impiegati in ruoli di potere. Gestivano le tradizioni familiari e la trasmissione dei saperi tradizionali, organizzavano le feste del paese, i matrimoni e i funerali.
Quando si chiedevano prestiti o si facevano compravendite erano le donne che si occupavano delle trattative. E dopo lunghissime contrattazioni era uso che gli uomini si lasciassero dicendo ‘Sento cosa dice mia moglie’.
In forma più o meno esplicita, insomma, era quasi sempre la donna a rappresentare la capofamiglia, vuoi per ragioni pratiche, vuoi per un ruolo forse ereditato dal passato.
Diversamente dal resto d’Europa, pertanto, la donna sarda non era completamente esclusa dalle decisioni economiche e dalle trattative. Il rapporto tra l’uomo e la donna era paritario.
Non è un caso, dunque, se le donne sono ancora oggi l’unico elemento dinamico nel mondo del lavoro sardo.
Il focus
Secondo i dati più recenti elaborati dal dipartimento di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’università di Cagliari, nel 2019, l’occupazione femminile in Sardegna ha raggiunto il picco più elevato di sempre: 255mila occupate. Questo dato è l’esito di una crescita progressiva e pressoché ininterrotta dall’inizio degli anni Duemila.
Nello stesso anno, per la prima volta, il tasso di occupazione femminile in Regione è stato il più elevato di tutto il Mezzogiorno, oltre che il più alto mai raggiunto nella nostra regione: 47,3% (contro un tasso medio del Mezzogiorno di 33,2%). Le donne sarde, infatti, insistono nel cercare lavoro anche nelle situazioni più svantaggiate, continuano a cercarlo anche se non lo trovano e accettano impieghi non proporzionati ai loro titoli di studio e alla loro esperienza, in linea con il bagaglio culturale e storico e con il loro carattere atavico, valore aggiunto per sopravvivere anche nei momenti di grave crisi economica.
Sarà necessario attendere ancora qualche mese per avere un quadro preciso dei danni che la pandemia ha prodotto nel 2020 sull’occupazione femminile, ma si presume che, pur vivendo una situazione eccezionale, non si intaccherà la tendenza generale dell’occupazione in Sardegna.
Certo c’è da chiedersi in che tipo di lavoro siano impegnate le donne sarde e quale sia il loro identikit. Da uno studio condotto sempre dall’Università di Cagliari, risulterebbe che l’occupazione femminile in Sardegna sia largamente adulta: le donne occupate avrebbero un’età media elevata. Ciò non solo per effetto dell’invecchiamento della popolazione, ma anche per un accesso al lavoro molto limitato per le giovani donne. La classe di età più consistente sarebbe quella tra i 45 e i 54 anni (secondo le ultime stime 77 mila) e nel complesso ben oltre la metà delle lavoratrici sarde avrebbe almeno 45 anni, mentre le giovani tra i 15 e i 24 anni sarebbero 6 mila e nella classe di età successiva (25-34 anni) arriverebbero a 44 mila, meno di quelle che starebbero per andare in pensione.
Emerge altresì che molte donne nell’ultimo ventennio hanno occupato posizioni relative alla cura della persona: in tante fanno le badanti (30mila circa), a differenza delle altre regioni italiane nelle quali questi ruoli lavorativi sono perlopiù appannaggio di donne straniere.
Le donne sarde, insomma, si attivano in molti modi.
Le lavoratrici dipendenti sono oltre l’82%, di cui il 40% con un contratto part-time; ma c’è da evidenziare che il part-time quasi mai è una scelta. Spesso si tratta di una iniziativa del datore di lavoro, un dato di fatto che viene vissuto dalle donne come un ripiego visto che lavorare un maggior numero di ore significa avere una retribuzione più alta. Anche il 20% delle lavoratrici autonome è occupata a tempo parziale: sono 9 mila su 45 mila lavoratrici autonome totali.
Il tipo di professioni svolte dalle donne sarde, oltre a quello della cura, è legato sostanzialmente al terziario. Pubblica amministrazione, sanità, turismo, servizi sociali e pubblica istruzione accolgono lavoratrici che raramente hanno ruoli organizzativi.
Negli ultimi anni si è, però, registrata l’avanzata femminile nell’amministrazione regionale, anche in posizioni apicali: a quei posti si accede per concorso e le donne sono risultate più brave. Lo stesso discorso vale per la magistratura. In altri settori la situazione è risultata diversa.
I dati elaborati all’università di Cagliari mettono in evidenza un altro dato positivo: nel 2019 in Sardegna le donne disoccupate erano il 15,1% delle forze lavoro femminili dell’isola. La disoccupazione è soprattutto adulta (come in tutta Italia): disoccupato è chi è alla ricerca di un lavoro e le donne sarde, come è stato rilevato, da questo punto di vista sono in prima linea.
La nota dolente riguarda le donne inattive: sono per lo più ragazze disoccupate, che cioè cercano un lavoro, però aiutano in famiglia avendo lasciato la scuola senza acquisire un livello di istruzione sufficiente.
Ma una riqualificazione lavorativa passa anche per il miglioramento del sistema di formazione.
Uno degli obiettivi strategici dell’Unione Europea, infatti, è il passaggio verso un’economia ed una società basate sulla conoscenza. In questo modello riveste una cruciale importanza l’aggiornamento dell’informazione, delle conoscenze e delle competenze.
La qualifica di generico non trova, ormai, più riscontro nella realtà, mentre è necessario possedere quelle professionalità spendibili nei mondi nuovi del mercato del lavoro e ricorrere alla formazione permanente per coloro che risultano già occupati.
La partecipazione alla formazione della componente femminile sarda, già a buoni livelli, sotto questo aspetto continua a crescere; infatti le donne continuano ad usufruire di molti corsi per la promozione delle pari opportunità nei vari ambiti.
Alcuni settori produttivi in cui più forte è avvertita la necessità di una formazione qualificata sono: il turismo, la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, la promozione di attività ludico-culturali, i servizi alla persona (con particolare riferimento agli anziani), la produzione e la commercializzazione di prodotti biologici, l’informatica, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Anche l’orientamento al lavoro ha oramai un approccio di genere, per consentire alle donne di valorizzare e gestire la compatibilità tra le proprie attitudini, conoscenze e competenze con un più ampio obiettivo di vita.
Nonostante il freno alla crescita occupazionale e delle attività commerciali imposto dal recente evento pandemico, l’imprenditoria femminile ha mostrato resilienza grazia a creatività e spirito innovativo. Senza rinunciare al valore dei processi produttivi tradizionali, si è puntato sulle utilità dell’innovazione tecnologica per migliorare le tecniche di vendita.
In conclusione, per vincere gli stereotipi e le paure che ogni donna incontra nel rapportarsi al mercato del lavoro e nella costruzione del percorso individuale, è necessario cura delle competenze ma soprattutto propositività e apertura.
Come ha detto Marisa Bellisario, “allo donne manca il diritto alla mediocrità”.
FONTI
La Nuova Sardegna
Regione Autonoma della Sardegna
Università degli studi di Cagliari , dipartimento di sociologia dei processi economici e del lavoro