EUTANASIA, AIUTO AL SUICIDIO E OMICIDIO DEL CONSENSIENTE
Dopo l’intervento della Consulta
«La sorte degli uomini, il doversi essi dipartire, all’inizio è stato un dono di Ilùvatar; se per gli uomini è diventata cagione di dolore, è solo perché, addugiati dall’ombra di Morgoth, è parso loro di essere circondati da un’infinita tenebra che li sgomentava; e alcuni di essi si sono fatti caparbi e superbi, decisi a non cedere finché la vita non venga loro strappata»
(dal discorso tra i Messaggeri dei Valr ed i Numenoreani; Sigmarillion – J.R.R. TOLKIEN).
La Corte costituzionale, pronunciandosi sul quesito referendario su «Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente)», ha optato per l’inammissibilità.
A seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della disposizione sull’omicidio del consenziente, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, specie in considerazione del coinvolgimento di persone in condizione di debolezza e vulnerabilità.
Nell’attesa del deposito della sentenza, v’è che la decisione non stupisce e non coglie impreparati.
La Corte sembra seguire la linea già tracciata con la nota sentenza n. 242 del 2019, con cui la quale, atteso inutilmente un intervento legislativo in materia, decideva sul c.d. ‘fine vita’.
Anzitutto, la Corte reputa necessario distinguere tra eutanasia (dal greco: ευθανασία -ευ, eu, “bene”, θανατος, thanatos, morte: buona morte), suicidio assistito (che si ha quando vengono fornite al paziente i mezzi e l’assistenza necessari a togliersi la vita in modo non doloroso) e omicidio del consenziente (quando si pone in essere una condotta avente come effetto diretto la morte di una persona).
Fattispecie tra loro differenti, ma questione da affrontare, in ogni caso, con rigore valoriale e senza approssimazioni populiste.
Chiarisce oggi la Corte che, se l’art. 579 c.p., nella sua formulazione attuale, fosse stato fatto oggetto di questione costituzionale, sarebbe stata per certo adottata una decisione simile a quella già presa in relazione all’art. 580 c.p.
Si ricorda che, con la sentenza del 2019 sopra citata, la Consulta, dopo aver evidenziato che il divieto ha una ragion d’essere con riguardo alle persone vulnerabili, che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita «qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto», ha, poi, individuato una serie di casi di riferimento in cui il soggetto agevolato i) sia una persona affetta da una patologia irreversibile, ii) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili, iii) la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, iv) ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
In breve, e senza ripercorrere il dettaglio del provvedimento, si tratta di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla vita del richiedente può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che si ha il diritto di rifiutare.
L’esercizio di questo diritto deve essere inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia», la c.d. alleanza terapeutica tra paziente e medico, e il medico è tenuto a rispettare la decisione di interruzione del trattamento.
In questi casi, il divieto assoluto di aiuto al suicidio avrebbe finito, paradossalmente, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile.
In breve, in seguito alla sentenza del 2019, è esclusa la punibilità di chi agevola un ‘proposito di suicidio’ autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
La Consulta ha posto, inoltre, quale ulteriore condizione, che l’aiuto sia prestato con le modalità previste dai citati artt. 1 e 2 della l. n. 219 del 2017 e sempre che le condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del SSN, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Oggi, in linea, la Corte evidenzia l’impossibilità di risolvere il problema con la mera cancellazione del reato: la soluzione lascerebbe del tutto priva di disciplina legale una situazione che si colloca in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi.
È facile credere che la decisione di non ammettere il quesito referendario sull’omicidio del consenziente sia stata determinata dalla consapevolezza che la morte non può essere considerata un ‘male assoluto’, da evitare sempre e comunque, rientrando, invece, tra gli aspetti della vita, da accettare e rendere meno dolorosa possibile, nel massimo rispetto della dignità dei soggetti più vulnerabili.
L’auspicio è si provveda presto a un intervento di modifica dell’art. 579 c.p., nella direzione indicata dalla Consulta e nel modo da garantire un ragionevole bilanciamento tra tutela della vita e della dignità personale e diritto all’autodeterminazione, con valorizzazione del SSN e dei ‘Comitati etici territoriali’.