IL LAVORO FEMMINILE NEL MONDO
Studio e proposte
Il 2020 ha subito una riduzione di circa 101 mila lavoratori rispetto all’anno precedente. Di questi, 99 mila, sono donne, di varia età.
Le lavoratrici autonome sono quelle maggiormente penalizzate, con ben 79 mila posti di lavoro in meno nel mese di dicembre rispetto a novembre 2020. Il tasso di occupazione femminile a dicembre 2020 ha subito un calo di 0,5 punti ed è cresciuto quello di inattività (+0,4 punti). Quest’ultima è stata più incidente nella fascia giovanile e di età media, con un allarmante primato femminile.
La fonte della maggiore fragilità femminile nel lavoro è data dalla tipologia di settori nei quali le donne sono più impiegate (servizi, cura delle persone e terziario), che sono anche quelli che più hanno risentito degli effetti della crisi pandemica.
Rispetto all’Europa la situazione Italiana è, certamente, più complessa.
Se da una parte, infatti, con riferimento al Gender Equality Index, l’Italia ha registrato un vantaggio di 12 posizioni tra il 2005 e il 2017, tuttavia mantiene l’ultima posizione nella scala del divario tra donne e uomini nel mondo del lavoro. Il tasso di occupazione femminile è di 17,9 punti percentuali inferiore di quello maschile. Il reddito medio delle donne rappresenta circa il 59,5% di quello degli uomini a livello complessivo. Queste differenze di reddito si riflettono anche nel gettito fiscale, con una minore aliquota media per le donne.
Un altro dato merita, poi, attenzione: il forte divario tra donne con e senza figli. Tra le donne tra i 25 e 49 anni il gap occupazionale è del 74,3% tra quelle con figli in età prescolare e quelle senza figli.
L’Italia è in sintonia con gli altri Paesi europei quanto al lavoro di cura non retribuito, che è svolto da donne nella misura del 92%, contro il 68% degli uomini.
Sconforta che, in Europa, soltanto la Svezia, secondo quanto reso noto dal Comitato Europeo dei diritti sociali (CEDS) su 15 Paesi che hanno accettato di applicare la procedura dei reclami collettivi della Carta sociale europea (Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica ceca e Slovenia), sia stata riconosciuta conforme alle disposizioni della Carta.
Dai dati raccolti emergono, insomma.
– una segregazione orizzontale del mercato del lavoro con il 40% delle donne occupate nei tre macro settori commercio, sanità e assistenza sociale, istruzione (il fenomeno incide in modo significativo sui divari retributivi di genere, generando svantaggi e inefficienze allocative);
– una segregazione verticale: le posizioni dirigenziali e decisionali meglio retribuite all’interno delle aziende private e pubbliche sono occupate quasi in via esclusiva da uomini.
Non molto diversa la situazione occupazionale femminile oltre oceano, aggravata ulteriormente da fattori culturali, organizzativi e di sistema.
In America Latina, ad esempio, moltissimo resta da fare per garantire pari dignità tra i sessi. Le donne latinoamericane occupano un ruolo sociale subalterno, al si aggiungono quasi naturalmente le differenti condizioni occupazionali.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro attesta che in America Latina e Caraibi (dati relativi al 2019) la situazione economica e occupazionale delle donne è molto allarmante. La loro partecipazione al mercato del lavoro viene definita “significativamente minore” rispetto a quella maschile. Si indica una partecipazione del 51,4% di donne, e di ben 74.9% per gli uomini. Anche il tasso di disoccupazione di genere diverge: 9,5%, per le donne, 6,8% per gli uomini 6,8%.
In alcuni Paesi, poi, il livello di diseguaglianza socio-economica tra i generi raggiunge punte estreme. Così in Cile, Bolivia, Honduras, Perù, Nicaragua ed Ecuador.
Argentina, Uruguay, Costa Rica e Venezuela presentano, invece, una bassa stratificazione di ineguaglianze e un divario decrescente nel reddito percepito da donne e uomini. Buenos Aires e Montevideo registrano il più basso livello di diseguaglianza tra i Paesi sudamericani e il più alto tasso di attività (per entrambi i sessi) e partecipazione femminile al mercato del lavoro. A Caracas il numero più basso di donne occupate.
Caso a sé è il Brasile, dove, nonostante le politiche sociali intraprese dagli esecutivi negli ultimi anni e le pressioni esercitate sul Paese a livello internazionale, ampie sono le diseguaglianze tra le diverse fasce della popolazione, nonché il divario retributivo di genere. Non aiuta certamente l’impostazione sociale di tipo patriarcale, che rende culturalmente difficile ogni miglioramento.
Alla complicata situazione lavorativa ed occupazionale femminile si affiancano le violenze di genere. Secondo la Encuesta Demográfica y de Salud Familiar (ENDES) del 2016, condotta in Perù, il 70,4% delle donne è stato vittima di violenza da parte del proprio sposo o compagno.
In Messico la discriminazione sale all’88% (in base ad un sondaggio condotto da El Universal), anche se il 10,7% delle intervistate non rileva discriminazione”. Le cause sono individuate nella povertà (per 88,1%) e nella violenza (86,9%). Il 51,1% delle intervistate ritiene, inoltre, sussistenti pari opportunità, mentre il 48% non le ritiene presenti.
I dati dimostrano una percezione fortemente polarizzata su numerose questioni, ma sostanzialmente concorde nel riconoscere l’esistenza di un problema.
In Sud America la violenza è una vigorosa piaga, con un’incidenza elavata sulle condizoni di vita femminili. Le violenze fisiche e psicologiche subite da donne e bambini sono tra le peggiori del mondo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che, in America Latina ci sono 160 mila casi di violenze l’anno, una media di 500 casi al giorno. Tante sono ancora le donne che subiscono senza denunciare, perché non sostenute da uno Stato assente e pregiudicate da una cultura patriarcale, che le discrimina e le relega ai margini della società.
I diritti delle donne non sono una priorità, anche per l’assenza di donne in posizioni politiche verticistiche, nonostante qualche passo in avanti sia stato fatto in Cile, Argentina e Uruguay.
Per ovviare alle tante diseguaglianze, l’Organizaciòn Iberoamericana de Seguridad Social(OISS) ha attivato il Programma per l’equità di genere nei sistemi di sicurezza sociale in Ibero-America.
Dal quadro delineato si evince una situazione preoccupante sia in Europa, che nel resto del mondo.
Le cause sono armoniche.
L’organizzazione del sistema dell’istruzione è in prima linea, molto influenzato dalla percezione socio-culturale per cui alcuni corsi di laurea sono ritenuti più “adatti alle donne”.
E’ pur vero che in Italia negli ultimi dieci anni molto è stato fatto sul tema, ma rispetto ad altri Paesi europei, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, tanta strada resta da fare.
Interventi mirati, di natura economica e strutturale non sono sufficienti. Occorre un cambiamento culturale imponente affinché la parità di genere possa trovare degno riconoscimento.
La Commissione Europea ha posto basi strategiche. Lo scorso anno è stato presentato un documento che contiene la strategia per la parità di genere 2020-2025, con un elenco di azioni da intraprendere nei prossimi 5 anni per garantire maggiore inclusione e prospettiva di uguaglianza in tutti i settori di azione dell’UE.
Tre sono i gruppi di azione:
1) intervenire sulla violenza e sugli stereotipi di genere, sincronizzando la legislazione nei diversi Stati europei (nell’UE il 33 % delle donne ha subito violenze fisiche e/o sessuali e il 55 % ha subito molestie sessuali);
2) intervenire sulle differenze salariali e sulla trasparenza retributiva (le donne nell’UE guadagnano in media il 16 % in meno rispetto agli uomini e continuano a incontrare ostacoli all’accesso e alla permanenza nel mercato del lavoro), con inserimento delle donne in settori caratterizzati da carenze di competenze;
3) intervenire per promuovere la partecipazione delle donne all’attività politica, in particolare alle elezioni del Parlamento europeo del 2024, anche tramite nuove sovvenzioni e la condivisione delle migliori pratiche (le donne continuano ad essere sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali, fra l’altro nelle principali imprese dell’UE, in cui rappresentano solo l’8 % degli amministratori delegati).
Traguardare i propositi di azione dell’UE deve essere la strada da seguire nel prossimo futuro.
A questi sarebbero da aggiungere interventi per la valorizzazione della maternità, da considerare un beneficio piuttosto che un ostacolo per l’occupazione femminile.
A cura di MARYNA VAHABAVA e DEISY IBAMA OROZCO
Fonti:
Gender Equality Index, Italia ultima in Europa per lavoro femminile
https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/06/30/pari-opportunita-svezia-conforme-carta-sociale-europea
https://www.ilsole24ore.com/art/occupazione-femminile-penalizzata-piu-maternita-che-covid-ADcKDUMB
https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—americas/—ro-lima/documents/publication/wcms_764630.pdf
https://adozioneadistanza.actionaid.it/magazine/condizione-donne-in-sud-america/
https://ec.europa.eu/info/policies/justice-and-fundamental-rights/gender-equality/gender-equality-strategy_en