IL RATING DI LEGALITÀ
Oltre la logica del mero profitto
Il mondo dell’economia, della finanza e delle banche, è noto, è dedito all’inseguimento di numeri e risultati; la bontà di ogni operazione e di ogni decisione viene misurata in funzione del ritorno che è in grado di far ottenere.
Tutto ruota attorno al concetto di profitto.
Ciò che ‘rende’ in termini economici è certamente positivo e diventa il motore della complessa macchina che produce scelte di finanziamento e distribuisce opportunità.
Ma cosa accadrebbe se, per valutare il rating, ossia la credibilità di un’azienda, si iniziassero a prendere in considerazione indici che non risultano, almeno prima facie, connessi al risultato economico?
Cosa accadrebbe se nella valutazione di un’azienda si prendessero in considerazione anche elementi che hanno attinenza con le c.dd. buone pratiche e che si fondano sul rispetto della legalità?
Esiste da alcuni anni in Italia il c.d. rating di legalità, uno strumento che sarebbe auspicabile trovasse ampio riconoscimento quale metodo di misurazione della virtuosità di un’azienda e che riconosce premialità a quelle imprese che operano secondo i principi della legalità, della trasparenza e della responsabilità etica e sociale.
Si tratta, in concreto, di un indicatore sintetico del rispetto di elevati standard di legalità da parte delle imprese che ne abbiano fatto richiesta e che viene attribuito dall’Autorità a quelle che (sia in forma individuale che societaria) soddisfano cumulativamente i seguenti requisiti:
– sede operativa in Italia;
– fatturato minimo di due milioni di euro nell’esercizio chiuso nell’anno precedente a quello della domanda;
– iscrizione nel registro delle imprese da almeno due anni alla data della domanda;
– rispetto degli altri requisiti sostanziali richiesti dal Regolamento.
Occorrerebbe, al riguardo, sensibilizzare a una maggiore adesione al meccanismo, attivo già dal 2012, anno di emanazione della delibera AGCM avente ad oggetto il ‘Regolamento attuativo in materia di rating di legalità’, al quale ha fatto seguito il decreto MEF-MISE del 20 febbraio 2014, n. 57, inerente il «Regolamento concernente l’individuazione delle modalità in base alle quali si tiene conto del rating di legalità attribuito alle imprese ai fini della concessione di finanziamenti».
Nonostante il tempo trascorso, questo sistema ancora non è riuscito a guadagnare il successo che dovrebbe riscuotere e la giusta diffusione, forse perché le aziende italiane sono ancora troppo legate al sistema di valutazione dei bilanci o perché visto come una ingerenza nella corretta gestione dei dati interni legati al proprio business.
Nonostante il settore bancario, dedito all’analisi dei rating aziendali ai fini del riconoscimento di finanziamenti alle imprese, si sia prontamente adeguato alla normativa, e anzi, nel report elaborato da Bankitalia, vengano esposti i benefici, in termini di tempi e di ottenimento del finanziamento per le imprese che aderiscono al rating di legalità, manca, di fatto, una reale volontà di partecipazione.
Eppure il merito creditizio deve potersi fondare su indici che non sono costituiti solo dai numeri estrapolabili dai bilanci; deve guardare all’impresa anche in base al rispetto delle regole (specie di quelle previste dalla l. n. 231 del 2001), e al rispetto dei principi di comportamento etico in ambito aziendale. A maggior ragione in un momento in cui il concetto di sostenibilità penetra nell’essenza di ogni nostra attività, sia essa di piccole o grandi dimensioni, rivoluzionando il mondo economico-sociale.
È auspicabile che la valutazione delle aziende passi anche attraverso l’assegnazione di un ‘riconoscimento’ indicativo del rispetto della legalità e del grado di attenzione riposto nella corretta gestione del proprio business, in un’ottica certamente più affine alla stessa realtà aziendale.