Inclusione socio-lavorativa dei migranti
Opportunità da cogliere
Una delle sfide principali legata all’inclusione socio-lavorativa dei migranti consiste nel comprendere come prepararli ad integrarsi nel nuovo Paese, facendo sì che il capitale umano che portano non si disperda ma trovi nuovo valore.
Questo porterebbe utilità e vantaggio sia ai migranti, perché ne favorirebbe l’integrazione e consentirebbe di perseguire il desiderio di esistenza libera e dignitosa anche in una terra nuova, dalla quale non si sentirebbero estranei, sia al contesto sociale ed economico ospitante, perché la diversificazione delle competenze contribuisce sempre al progresso e al contenimento dell’impatto dell’invecchiamento e della diminuzione della popolazione.
Per alcuni ‘integrazione’ vuol dire perfetta ‘assimilazione’.
Per altri significa ‘aderenza ai valori fondamentali affermati nelle Costituzioni nazionali’, con margini di tolleranza e accettazione per la diversità culturale.
Per qualcuno gli immigrati dovrebbero adeguarsi ai costumi e alle tradizioni della comunità che li ospita; per altri, la diversità è preziosa, sempre nel rispetto dei valori politici e civili che regolano la convivenza sociale in un certo contesto.
Per alcuni l’integrazione è responsabilità dei migranti, chiamati a dimostrare la volontà di adattarsi a un certo modo di vivere; per altri è responsabilità soprattutto dei Paesi ospitanti, che devono impegnarsi a offrire accesso alla formazione e al lavoro e a vigilare sulle discriminazioni.
C’è chi sostiene che l’integrazione è un «processo di confronto e di scambio di valori, di standard di vita e modelli di comportamento tra popolazione immigrata e società ospitante ma è anche il rispetto delle consuetudini e le leggi vigenti dello Stato ospitante».
All’avvio della programmazione relativa al FSE 2014-2020 (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), le amministrazioni regionali constatavano che l’inclusione sociale dei migranti trova ostacolo anzitutto nella carenza di abilità linguistiche, di formazione o di esperienza lavorativa nel Paese di destinazione, ma anche nel mancato riconoscimento delle qualifiche acquisite in quello di origine, e non da ultimo nel limite culturale legato alla discriminazione.
Le strategie di intervento messe in campo con il sostegno del FSE sono state pertanto costruite per poter contrastare e superare questi ostacoli.
Le Regioni italiane hanno accolto, sia pure non ancora pientamente, la sfida dell’Unione europea di rendere il mercato del lavoro europeo più aperto ai migranti, finanziando interventi a favore dei cittadini di Paesi terzi, minoranze etniche, soggetti richiedenti asilo, rifugiati e Rom, con l’obiettivo principale di promuoverne l’inclusione sociale e la piena partecipazione alla vita della collettività.
L’Unione rimane in stallo, invece, sul fronte della riforma del regolamento di Dublino sull’asilo, e la Commissione europea preme anche su un altro aspetto cruciale: l’integrazione e l’inclusione dei migranti regolari.
A novembre del 2020 l’esecutivo UE presentava un piano d’azione in materia, il secondo dopo quello del 2016. Un documento che punta il faro, più che in passato, sul ruolo del Paese ospite e soprattutto delle comunità locali, cruciali per attuare programmi di integrazione. E tiene molto più conto anche di quanti sono di seconda generazione ma continuano a incontrare difficoltà e discriminazione.
Complessivamente, secondo la Commissione, sono 34 milioni le persone straniere che vivono in Europa, l’8% della popolazione. Anche se, certo, le percentuali cambiano molto a seconda dei Paesi: oltre il 10% in Svezia, Estonia, Lussemburgo, Lettonia, Croazia, Austria, Malta e Germania, sotto il 3% nella Repubblica Ceca, in Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia e Slovacchia. In media, inoltre, il 10% dei giovani tra i 15 e i 34 anni ha almeno un genitore nato fuori dall’Unione.
La Commissione propone un piano d’azione che non ha valore vincolante (a differenza dei flussi irregolari e dell’asilo, la migrazione regolare è stretta competenza nazionale), ma vuol servire da orientamento.
Tra i filoni di interesse, anzitutto la questione dell’istruzione e della formazione, inclusive fin dalla prima infanzia, con un focus sull’apprendimento della lingua.
Quello per Bruxelles più importante riguarda l’incremento delle opportunità lavorative e del riconoscimento delle qualifiche, che favorirebbe l’autonomia di coloro che si trovano in condizioni di svantaggio, garantendo al tempo stesso l’unità e la coesione sociale. Significherebbe offrire a tutti pari opportunità di godere dei diritti fondamentali e di partecipare alla vita sociale e comunitaria, indipendentemente dal contesto di provenienza e in linea con il pilastro europeo dei diritti sociali. Significherebbe anche rispettare i valori europei comuni sanciti dai trattati e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Uomo (democraticità, Stato di diritto, libertà di parola e di religione, diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione).
È su questa logica che si basa la creazione del portafoglio ‘Promuovere il nostro stile di vita europeo’ in seno alla Commissione: difendere la semplice ma essenziale premessa che tutti contano, che nessuno deve essere lasciato indietro e che tutti devono poter esercitare efficacemente i propri diritti e avere accesso alle opportunità e alla sicurezza.
Insomma, garantire reali integrazione e inclusione dei migranti è un investimento prima di tutto sociale, perché favorisce la coesione, ma anche la resilienza e il progresso economico.
Su questa consapevolezza, in molti Stati membri il piano d’azione ha contribuito all’elaborazione o alla revisione delle strategie nazionali di integrazione e ha fornito informazioni sull’uso dei finanziamenti per l’integrazione. In alcuni casi le autorità nazionali hanno ricevuto un’assistenza tecnica su misura per la progettazione e l’attuazione delle riforme della politica.
Tuttavia le persistenti sfide in relazione all’occupazione, all’istruzione, all’accesso ai servizi di base e all’inclusione sociale dei migranti dimostrano che ancora è necessario sviluppare una narrazione positiva, condividendo esempi/soluzioni positivi per le politiche di integrazione come mezzo per contrastare la disinformazione.
Un passo ulteriore deve essere fatto verso l’integrazione economica.
Da questo punto di vista, l’Italia è in linea con la media europea: gli stranieri sono più esposti rispetto ai cittadini italiani al rischio di povertà ed esclusione sociale. La forbice, però, non è particolarmente ampia. La differenza tra stranieri e autoctoni è decisamente più marcata in Svezia (36,7 punti percentuali di differenza) e Francia (29,9), dove la povertà e l’esclusione sociale sono fattori di rischio meno rilevanti per la popolazione locale.
Non meno importante, serve sradicare l’overqualification (in italiano traducibile come sovraqualificazione o iperqualificazione). Solitamente l’immigrato è impegnato in lavori meno prestigiosi e meno retribuiti rispetto a quelli a cui, in teoria, potrebbe aspirare. L’overqualification dovrebbe essere un fenomeno transitorio, legato al processo stesso dell’integrazione. In realtà, però, raramente è così e gli stranieri, in Italia come nel resto d’Europa, mantengono a lungo termine una situazione lavorativa svantaggiata rispetto ai cittadini autoctoni.
È innegabile che la società sia attraversata anche da nuove forme di insicurezza dei singoli e dalla frammentazione delle comunità, causate da trasformazioni sociali, culturali, demografiche ed economiche. Tale contesto accresce il livello di vulnerabilità per una parte della popolazione; si rileva in particolare la crescente difficoltà da parte delle famiglie ad assolvere ai compiti (educativi, assistenziali, di recupero e integrazione sociale) che esplicitamente o implicitamente sono loro affidati e che hanno assolto in passato.
Non è semplice, ma è ancora possibile, riattivare il motore della solidarietà, l’unica capace di oltrepassare le barriere sociali e di portare ad attivarsi nel bene collettivo, per vincere la ‘politica del terrore’ che divide e indebolisce.