INVALSI: STRUMENTO DI MISURAZIONE E VALUTAZIONE O PROCEDURA DI STANDARDIZZAZIONE DELLA FORMAZIONE SOGGETTIVA?
Le Rilevazioni nazionali svolte annualmente dall’INVALSI sono generalmente fonte di accesi dibattiti che generano flussi di informazioni pro e contro questa pratica valutativa. Le diverse posizioni concorrono al processo di costruzione della valutazione scolastica. L’analisi comprende sia le ragioni che le originano sia i motivi che ne possono determinare l’evoluzione. L’obiettivo è quello di trarre riflessioni, senza le quali un processo di cambiamento non può essere compreso.
La principale normativa di riferimento per quello che attiene l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione è connessa all’attuazione del d.lg. n. 62 del 2017, con il quale sono state apportate importanti innovazioni nella valutazione standardizzata e nella certificazione delle competenze condotte dall’INVALSI.
Il d.lg. n. 62 del 2017 recante norme in materia di valutazione e di certificazione delle competenze, approvato ai sensi dell’art. 1, commi 180 e 181, l. n. 107 del 2015, apporta importanti modifiche al decreto n. 122 del 2009 (Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione). Al d.lg. n. 62 del 2017, attuativo della l. n. 107 del 2015, seguono il d.m. n. 741 del 2017, dedicato a disciplinare in modo organico gli esami di Stato di scuola secondaria di primo grado, il d.m. n. 742 del 2017, con il quale sono stati adottati i modelli nazionali di certificazione nazionale delle competenze, e la nota n. 1865 del 10 ottobre 2017, volti a fornire indicazioni in merito a valutazione, certificazione delle competenze ed Esame di Stato nelle scuole del primo ciclo di istruzione.
Tratteremo in questa sede esclusivamente la parte del decreto che si occupa di disciplinare lo sviluppo e l’articolazione delle cosiddette prove INVALSI.
Nella scuola primaria, le prove si sostengono in seconda e quinta. In quinta viene introdotta una prova in inglese coerente con il quadro comune europeo di riferimento delle lingue e con le indicazioni nazionali per il curricolo. Nella secondaria di primo grado, le prove si sostengono in terza, ma non fanno più parte dell’esame. Alle prove di italiano e matematica, si aggiunge la prova di inglese. Le prove sono computer-based. La partecipazione sarà requisito per l’accesso all’Esame, ma non inciderà sul voto finale.
Uno dei temi di maggior rilievo è il passaggio dalla somministrazione cartacea a quella in CBT (almeno nella scuola secondaria di primo grado e in misura via via crescente nella scuola secondaria di secondo grado). Per quanto concerne l’organizzazione scolastica, la somministrazione CBT implica certamente una maggiore flessibilità in termini organizzativi, poiché le prove nazionali non possono essere più somministrate nello stesso momento (come avveniva per la prova cartacea), ma avvengono in un arco temporale più ampio. Analizzando i contributi che riportano le azioni messe in atto dalle scuole per organizzare le prove, tuttavia, emergono diversi punti di vista e modalità di approccio decisamente più positive di quanto alcune previsioni sembravano prefigurare.
Diversi dirigenti scolastici hanno infatti sostenuto di vivere il cambiamento in maniera propositiva senza particolari difficoltà, ma anzi come una sfida interessante, affermando che si tratta di organizzare un servizio, non particolarmente difficile da gestire e ritenendo l’introduzione del CBT un’occasione per incrementare le risorse e le dotazioni tecnologiche attraverso la collaborazione con il comune di riferimento, oppure utilizzando i fondi europei sul cablaggio della rete e sulle postazioni computer. Vi sono certamente anche pareri diversi, di dirigenti scolastici che hanno invece lamentato molteplici difficoltà nell’organizzazione dei turni per rispondere a un cambiamento faticoso, angoscioso, difficilmente realizzabile e destinati sicuramente un fallimento del CBT.
Malgrado alcune infauste previsioni della prima ora, la collaborazione tra dirigenti scolastici e INVALSI ha permesso di risolvere la maggior parte dei problemi riscontrati e di svolgere le rilevazioni nazionali senza particolari difficoltà.
Un dato interessante, sempre secondo il rapporto INVALSI, è l’assenza pressoché totale delle criticità attese. La collaborazione di una fetta consistente di dirigenti scolastici e di docenti, unita allo sforzo di informazione compiuto dall’INVALSI e a una sensibilità sociale crescente circa la necessità di misurare oggettivamente gli esiti di apprendimento degli studenti italiani, sembra mostrare un cambiamento nelle convinzioni (più o meno latenti) che accompagnano la valutazione scolastica ed in particolare le prove oggettive. Potremmo quindi affermare che, se è vero che il cambiamento, in ogni campo, innesca momenti di crisi poiché si inserisce in sistemi consolidati di credenze e di prassi con questi coerenti, è altrettanto vero che, laddove vi siano evidenze suffragate dall’esperienza circa gli effetti migliorativi di una innovazione che agisce in un sistema organizzato, la proposta di nuove strutture concettuali e di prassi nuove si traduce in una evoluzione del sistema stesso, sia pure, a volte, con i tempi di metabolizzazione che un cambiamento profondo richiede.
A ben vedere però sembrerebbe che il problema di questo tipo di test è sapere cosa esattamente misura.
Non risulta ben chiaro se controlla il grado di apprendimento di quello che è stato insegnato o la prontezza nelle risposte, o altre abilità. Se diventa cruciale ‘far bella figura’ ai test, siamo di fronte al classico caso di una ‘misura’ che perturba la cosa da misurare, nei programmi e nel metodo di insegnamento e nel risultato stesso: in Italia, la somministrazione del test avviene per mano dagli stessi insegnanti ed in passato ci sono stati casi di aiuti agli studenti (risultati non affidabili).
L’interpretazione delle prove dipenderà da quello che cerchiamo.
Si supponga che dopo un’attenta analisi si scopra che gli studenti di classi numerose imparino meno e peggio di quelle con venti studenti, che la presenza di alunni che non parlano l’italiano rende problematica la didattica e il completamento dei programmi, che chi frequenta scuole moderne con laboratori ha, in media, miglior profitto di quelli che vanno in scuole fatiscenti, che un insegnante laureato in lingue straniere insegni meglio l’inglese alle elementari rispetto ad una maestra che ha seguito un corso. Appare lecito chiedersi come il Ministero possa concretamente intervenire su queste tematiche, una volta aver assunto tale dato certo.
Qui si apre un ventaglio di possibilità che non sembrano allo stato dell’arte disciplinate e tantomeno normate. Le ipotesi possono essere molteplici e soggette di conseguenza a discussioni e libere interpretazioni, che vanno dall’assumere nuovi e più competenti insegnanti, prevedendo sostegno didattico e linguistico dove necessario, passando per l’adeguamento del patrimonio edilizio e tecnologico.
In tal caso, ben vengano gli INVALSI.
Se invece pretendiamo che le prove siano anche un test sugli insegnanti, sulle classi e sul singolo istituto scolastico (a questo punto però i test dovrebbero forse essere somministrati da personale INVALSI), leggeremo i risultati come classifiche. Dopo di che, l’apparato statale dovrebbe, si crede, intervenire finanziariamente e strutturalmente verso quelle scuole deboli, per portarle a livello delle altre. Come non appare ben chiaro a chi eventualmente imputare un risultato INVALSI negativo.
In questo senso, ci si domanda se il concetto di scuola può essere assimilato a quello di azienda.Appare evidente che tutte le scuole dovrebbero soddisfare certi livelli ed anche se la trasparenza fosse perfetta e la classifica veritiera, verosimilmente dovremmo attenderci una scuola scadente vuota ed una, ottima strapiena, con la conseguente necessità oggettiva di chiudere istituti non all’altezza e nel contempo fare ampliamenti per quegli istituti performanti, o quantomeno rendere buona anche la scuola scadente. È opinione comune che la Scuola italiana non debba risultare mediocre al confronto di altre realtà. Ritenendo verosimile la possibilità che non ci si accontenti di livelli scadenti di conoscenza e competenza perché equivarrebbe ad affermare che diamo per buona una conoscenza mediocre, la standardizzazione di un test a cadenza determinata nel percorso formativo di un soggetto sembrerebbe essere idoneo strumento per l’interesse diffuso della collettività per innalzare il livello medio delle nostre conoscenze.
Fino a quando nella Scuola italiana non si affronterà con coerenza il problema degli obiettivi da conseguire e dei livelli minimi di apprendimento (con coerenza: se non superi l’equivalente del TOEFL, per esempio, lo ripeti ma ti sostengo adeguatamente) e non si adegueranno edifici scolastici e classi a criteri basilari di didattica moderna, i test INVALSI serviranno, purtroppo, solo a chi li formula e solo a titolo di conoscenza non anche a titolo di dato dal quale trarre soluzioni strutturali, se non definitive, quantomeno incisive.
Sarebbe auspicabile un ritorno ai fondamentali di ciò che significa valutare gli apprendimenti.
Tenuto conto che l’INVALSI ad oggi si presenta a tutti gli effetti come una ricerca scientifica che dovrebbe fornire risultati di misurazione delle performance dei nostri allievi, per perseguire un percorso di qualità, e preso atto che serve avere indicatori su dove e come intervenire, sembrerebbe altrettanto necessario prevedere soluzioni pratiche e di prospettiva per far sì che questo strumento attenda agli obiettivi per i quali è nato, richiamando comunque la necessità di un’evoluzione continua e specifica che permetta, seppur nella standardizzazione del test, di potenziare e premiare le peculiarità soggettive di ciascuno.
L’obiettivo della formazione in generale non è il superamento di un test ma la caratterizzazione ed il potenziamento delle peculiarità di ciascuna individualità.
Di LEONARDO ALLEGREZZA