La forza di essere se stessi

La forza di essere se stessi

La nostra battaglia sull’uso responsabile dei social mi riporta alla mente un episodio di una serie televisiva britannica, antologica, di qualche anno fa, ‘The black mirror’. Una fiction ambientata nel futuro, ma in realtà ispirata ai problemi dell’attualità e alle sfide poste dall’introduzione di nuove tecnologie.
In una puntata, in particolare, si rappresenta un mondo nel quale chiunque può votare la popolarità degli altri, assegnando un massimo di cinque stelle, grazie a un’applicazione dello smartphone e a lenti standard che consentono di visualizzare il nome e il punteggio corrente di tutti. La possibilità di accedere a certi rapporti con gli altri è fatta dipendere proprio dall’indice di gradimento raggiunto. Così, ad esempio, per acquistare una casa, serve un punteggio di almeno 4,5; per prenotare un volo ne serve uno di almeno 4.2. Va da sé che, per raggiungere il punteggio necessario, è importante guadagnare l’apprezzamento degli altri, dicendo cose condivisibili, vestendo in un certo modo, eccellendo negli sport, nel lavoro. Un voto negativo abbassa l’indice; quindi bisogna stare attenti a non dire e fare cose sbagliate o almeno non gradite a chi osserva.
Davvero un mondo inquietante.
Purtroppo spesso accade che la realtà vada oltre la fantasia.
Fa riflettere un fatto realmente accaduto. Un gruppo di enti collegati, tra i quali un’associazione onlus, sostiene di essere in grado di elaborare, tramite una piattaforma, profili reputazionali di persone fisiche (dunque non di imprese, ma di individui), al fine di bandire profili fake o artefatti, e di consentire così a terzi di verificare la loro reale credibilità. Congegna un sistema di assegnazione di un ‘punteggio sociale’ ai singoli mediante elaborazione algoritmiche dei dati. Alla piattaforma si aderisce ovviamente su base volontaria. Il sito consente agli aderenti di documentare la propria posizione e quella di altri in relazione a fatti che possono essere considerati rilevanti sul piano della reputazione, e di valutare e classificare anche le controparti. Verificata la genuinità dei documenti caricati, il sistema emette un rating reputazionale, che determina il grado di affidabilità di ciascuno. L’obiettivo è creare spazi di mercato sicuri, in cui è possibile fidarsi dell’altro, e sollecitare operosamente condotte virtuose.
Il Garante per la protezione dei dati personali, al quale i promotori dell’iniziativa si rivolgono per chiedere parere sulla regolarità, censura la pratica. Il provvedimento è impugnato dinanzi al Tribunale di Roma, che invece ammette che «non può negarsi all’autonomia privata la facoltà di organizzare sistemi di accreditamento di soggetti, fornendo servizi in senso lato “valutativi”, in vista del loro ingresso nel mercato, per la conclusione di contratti e per la gestione di rapporti economici». La questione arriva in Cassazione, che si semplifica l’impegno riducendo tutto a un fatto di consenso. O meglio si concentra sulla verifica dell’idoneità del consenso prestato dagli aderenti alla piattaforma a comprendere anche l’accettazione di un sistema automatizzato per la valutazione oggettiva dei dati personali. Per dire che, là dove non sia reso conoscibile lo schema esecutivo in base al quale l’algoritmo si esprime, il consenso non può dirsi validamente prestato. È dunque l’invalidità del consenso a rendere illecito il trattamento dei dati personali. È l’invalidità del consenso a rendere illegittima la pratica.
Qui si potrebbe aprire una parentesi sull’assoluta indecifrabilità degli algoritmi con i quali vengono calcolati prezzi dei voli e dei biglietti treno, che per certo non rende invalido il nostro consenso all’acquisto, ma sulla vera utilità di un consenso non consapevole tante cose si potrebbero dire.
A ogni modo, indipendentemente dalla conoscenza o meno della tecnica utilizzata, l’attività di rating può comportare distorsioni o condizionamenti del comportamento dei soggetti, anche in punto di libertà di autodeterminazione e di sviluppo delle personalità secondo proprie autentiche inclinazioni.
Allora forse il problema non è tanto quello dell’effettività del consenso, quanto la compatibilità con il piano valoriale italo-europeo della tecnologia servente ad assegnare un punteggio sociale alle persone. Ed è quantomeno dubbio, di là dal caso particolare, che sia aderente al disegno costituzionale un sistema volto a catalogare le personalità.
Purtroppo se ne può vietare l’istituzionalizzare, ma il sistema è esattamente quello che trova concretezza nelle relazioni sociali.
Se, come accade, le relazioni dipendono dal gradimento altrui le persone iniziano a vivere in funzione di tutto quello che può far emergere le proprie virtù, o certe virtù, con buona pace della libertà di autodeterminazione e del libero sviluppo delle personalità umane. Segue, quello che è già un fatto, un processo di omologazione, illusoriamente immaginato come uno strumento inclusivo. In realtà non c’è nulla di più escludente dell’omologazione, che taglia fuori dai gruppi tutti coloro che non intendono aderire a un certo modello o a una certa impostazione di vita.
Sono solo alcuni spunti di riflessione, ma affido tutto quello che manca a questo messaggio all’opera costruttiva di Meritocrazia e all’equilibrio che saprà dimostrare dando valore alle potenzialità del mezzo grazie a un’opera attenta di sensibilizzazione e di responsabilizzazione.
«L’intelligenza che ha generato la rivoluzione digitale: è assai più importante che studiare quella che ne è stata generata: ne è la matrice originaria. Perché l’uomo nuovo non è quello prodotto dallo smartphone: è quello che lo ha inventato, che ne aveva bisogno, che se l’è disegnato a suo uso e consumo, che lo ha costruito per fuggire da una prigione, o rispondere a una domanda, o zittire una paura». Sono le parole più capaci di rappresentare la missione di chi, come Noi, è consapevole del potere delle idee e coltiva, sempre, spesso navigando a gran fatica controcorrente, il pensiero divergente.



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