LA TARIFFA PUNTUALE: “PAY AS YOU THROW” (PAYT)

LA TARIFFA PUNTUALE: “PAY AS YOU THROW” (PAYT)

Un sistema premiale che incentiva l’economia circolare e rende giustizia fiscale: eppure non decolla.

TARSU, TIA, TARES, TARI: tasse o tariffe. Il disorientamento ventennale degli utenti ricicloni alla fiera degli acronimi sui rifiuti approda finalmente al sistema di tariffazione puntuale. Se fino ad oggi le acrobazie politiche hanno sfornato regimi di prelievo modulati sulle superfici degli immobili e/o sul numero dei componenti il nucleo, il d.m. 20 aprile 2017 apre la strada al compimento di una reale eco fiscalità. Ma tristemente sono pochi i Comuni che percepiscono tale opportunità come obbligo.

Il d.m. 20 aprile 2017, in attuazione dell’art. 1, comma 667, l. n. 147 del 2013 (legge di stabilità 2014), ben può dirsi che arriva con vent’anni di ritardo, posto che la tariffazione puntuale fu prevista già dall’art. 49, d.lg. n. 22 del 1997 (c.d. Decreto Ronchi) e dal successivo d.P.R. n. 158 del 1999.

L’art. 1 stabilisce i «Criteri per la realizzazione da parte dei Comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati». Si consente ai Comuni di superare il metodo presuntivo fondamento della TARI e delle precedenti tassazioni in essa confluite, verso l’attuazione di una tariffa corrispettiva che permetta agli utenti di pagare per quanti rifiuti indifferenziati producono: ‘pay as you throw’.

Grazie alla tariffazione puntuale, che adegua il sistema dei rifiuti a quello previsto per gli altri servizi di pubblica utilità, oggi l’utente potrebbe pagare soprattutto in proporzione al rifiuto che produce e alla capacità di non produrlo affatto; pur se in parte, essendo la tariffa composta da una quota fissa, a copertura dei costi di esercizio e di gestione, e da una quota variabile, calcolata in base ai rifiuti prodotti dall’utente, al netto di un numero di conferimenti minimi comunque da imputare per scongiurare la migrazione dei rifiuti in altri Comuni o il loro abbandono.

Con la tariffa puntuale i rifiuti si misurano «mediante pesatura diretta, con rilevazione del peso, o indiretta mediante la rilevazione del volume dei rifiuti conferiti da ciascuna utenza» (art. 6) e ciò può avvenire con diverse modalità: mastelli, sacchetti, cassonetti forniti di chip o codici a barre per il riconoscimento dell’utenza, precedentemente individuata attraverso «l’assegnazione di un codice personale ed univoco» (art. 3).

A due anni esatti dalla sua entrata in vigore, questo prodigio, che prevede anche la possibilità di misurare altre frazioni di rifiuto come vetro plastica e carta, oltre alla frazione organica, così da aumentare e migliorare la qualità della raccolta differenziata, pur essendo indubbiamente uno strumento di equità fiscale e un incentivo verso gli obiettivi dell’economia circolare, stenta a decollare.

Pochi i Comuni che hanno puntato sull’aumento della raccolta differenziata e sulla riduzione delle quantità attraverso l’applicazione del sistema puntuale, giustamente convinti che i rifiuti possono generare risorse, risparmi e occupazione. Molti quelli che stagnano in un sistema finalizzato ad incassare la tassa per coprire i costi di igiene urbana, incuranti di una utenza virtuosa impegnata alla riduzione dei rifiuti al prezzo di un trattamento iniquo. È corretto affermare che ad oggi il nostro sistema di finanziamento si basi ancora sulla tassa, almeno nel 97% dei Comuni italiani (dati ISPRA 2016).

Il regime tariffario puntuale, di fatto chiede ai Comuni un impegno organizzativo e finanziario in termini di investimento tecnologico, e ai cittadini la responsabilità delle proprie azioni con la promessa di un regime premiale: ad entrambi di collaborare all’attuazione di un sistema di sostenibilità ambientale.

Sarebbe il caso che la politica educasse i Comuni a percepire l’applicazione del d.m. 20 aprile 2017 come un obbligo e non solo come una mera utilità: i sistemi di misurazione hanno per intanto raggiunto uno standard di qualità tecnologica di prodotto e di processo, oltre che un livello di accessibilità economica, tali da non potersi più considerare un impegno organizzativo e finanziario inaccessibile alle possibilità dell’ente comunale.

Al contrario, appare più che condivisibile il suggerimento di quanti indicano nel rinnovo degli affidamenti dei servizi in scadenza, il momento più vocato a rendere obbligatorio in capo ai Gestori l’adozione di una modalità di raccolta capace di misurare in modo certificato il rifiuto prodotto da ogni singola utenza. Tale capacità, unita a quella di trasmettere il dato al software gestionale della tariffa, devono costituire condizione necessaria alla partecipazione alla gara, pena l’esclusione.

Una esclusione funzionale all’ambiente e al merito.

Di MICAELA DE CICCO



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