La tutela del Pianeta unisca, non divida
Strategie di salvezza
Il cambiamento climatico è un fatto innegabile.
Al caldo inusuale, ogni anno in crescita, cerchiamo di sopravvivere come possiamo, sperando passi in fretta.
Siamo ‘resilienti’.
Niente di peggio.
Ci adattiamo senza agire. E intanto la «questione verde» sta diventando nulla più che uno strumento di conflitto politico. Il processo di polarizzazione (con la banalizzazione che ne consegue) del dibattito sull’ambiente ha preso l’avvio già da un po’. Nuovo campo di scontri ideologici. Quando servirebbe piuttosto ragionata strategia condivisa.
Non avviene spesso che il Parlamento europeo si spacchi come è avvenuto sulla Restoration law, frutto di un compromesso resosi necessario per salvare coalizioni politiche sia a destra che a sinistra, e per non deludere del tutto il settore agricolo, che ha ottenuto la rimozione dal testo definitivo dell’articolo che riguardava il ripristino delle torbiere, con seguente rinuncia a uno strumento essenziale per la cattura della CO2 e per affrontare l’agricoltura intensiva quale causa principale della perdita di biodiversità.
Da lato loro, industria e finanza hanno già fiutato l’affare. Il terreno se lo contendono interessi puramente economici.
Non politica ambientale, dunque, ma green economy. È tutto già nel nome.
Industrie fino a oggi altamente inquinanti stanno progettando grandi investimenti in rinnovabili, solo perché ormai sono diventate redditizie. A conti fatti, comunque, un dato positivo.
Ma ci sarebbero tante altre da fare che non si fanno.
Si spinge sulle auto elettriche, pur consapevoli di quanto sia complicato arrivare a sostituire l’attuale parco auto entro un termine breve, considerando che i costi di una autovettura elettrica non sono sostenibili per tutti e che dipendiamo dalla Cina, e non solo dalla Cina, per le materie prime critiche necessarie per costruire le batterie.
Allora ben venga l’idea di riaprire miniere chiuse da oltre trent’anni per ripensare la posizione nelle catene del valore globale, con particolare riferimento proprio ai minerali e ai metalli critici (litio, nichel, elementi delle terre rare, gallio, tungsteno, ecc.) da cui dipendiamo per costruire qualsiasi apparecchiatura elettronica.
Ben venga che si chiudano accordi per le forniture di gas con i Paesi dell’Africa, nel tentativo di affrancarsi dalla fornitura di gas russo e per diventare hub energetico del Mediterraneo. Perché, se è vero che il gas è un combustibile fossile, è altrettanto inconfutabile che la transizione da fonti energetiche tradizionali a fonti rinnovabili deve ancora passare necessariamente dal gas, che tra l’altro è stato inserito dall’Unione europea nella tassonomia verde.
Ben venga il decreto sui rigassificatori, per i quali le procedure autorizzative sono state semplificate.
Il principio della neutralità tecnologica e la spinta che si sta cercando di dare ai biocarburanti, per i quali è stata introdotta da ultimo una procedura abilitativa semplificata, sono senza dubbio da considerare positivamente e per l’indipendenza energetica e perché sono necessarie per la transizione ecologica.
L’Unione dia però il via libera alla bozza di decreto sulle CER. E soprattutto si lavori perché venga approvato a stretto giro il PNACC, anche quello fermo da tempo immemorabile.
Per altro verso, gli obiettivi ambiziosi dell’Europa sono poca cosa se poi i singoli Paesi non sono nelle condizioni di centrarli. Occorre poter essere davvero liberi di scegliere le misure per la lotta al cambiamento climatico, ma è una scelta che non va rinviata.
È vero che il tempo a disposizione non è tanto, ma la strategia deve essere oculata, attenta, prevedere anche piccoli step, con il massimo coinvolgimento dei cittadini, per una reale transizione.
Ad esempio, se penalizzare le industrie per le emissioni che producono rischia di determinare un aumento dei prezzi dei prodotti, che alla fine ricade sul consumatore, una soluzione potrebbe essere spingere perché venga implementato il sistema dei crediti di carbonio, che si fonda sul principio della compensazione: l’impresa che inquina compensa le emissioni, investendo in progetti di riforestazione. Resta un fatto con il quale dobbiamo fare i conti: si fanno programmi per il futuro lontano solo se si crede di averne il tempo e di poter davvero fare la differenza; per questo obiettivi meno ambiziosi, ma potenzialmente più attuabili in concreto avranno più possibilità di essere accettati da chi della strategia green deve sopportare i costi.
Che la green economy non si traduca in una nuova “corsa all’oro”, ma viaggi in tandem con una politica ambientale dello sviluppo sostenibile, che sia realmente inclusiva e punti al benessere umano sotto ogni punto di vista.