L’arte sociale della democrazia

L’arte sociale della democrazia

In occasione della Giornata internazionale della Democrazia, è importante soffermarsi su un ideale che, pur essendo un faro di giustizia e partecipazione collettiva, oggi appare un po’ più fragile che in passato.

Nonostante le sue radici profonde, la democrazia si trova a fronteggiare sfide interne che, alimentando un senso di vulnerabilità collettiva, richiedono un’attenta riflessione. Comprendere questa condizione richiede analisi non ovvie che vanno dalla storia, all’arte, ai movimenti sociali, dalla psicologia di massa alla trasformazione dei media.
L’Italia ha affrontato una relazione complicata con la democrazia, divisa tra il ricordo di un passato glorioso e la difficoltà nel costruire un futuro coeso. L’Unità d’Italia non è stata solo un progetto politico, ma un tentativo di costruzione culturale capace di unire popoli diversi per storia, cultura e tradizioni. Questa diversità ha generato una democrazia che, pur con le sue difficoltà, ha cercato di affermarsi in un contesto storico spesso ostile, condizionato da interessi particolari e da quel familismo amorale, di cui si è parlato anche in queste settimane, introdotto come concetto dal sociologo Edward Banfield. Il sogno risorgimentale, nonostante la sua importanza, si è dovuto confrontare con la complessità del Paese reale. L’Italia è una Nazione giovane che ha faticato nel dare forma a una democrazia, creandola non solo istituzioni stabili, ma attraverso la costruzione di una coscienza nazionale.
Questa debolezza si è manifestata in maniera evidente durante il periodo fascista, quando vennero sfruttate le paure di un popolo disilluso dalla esperienza liberale per creare un regime autoritario. Questo spaccato storico ricorda che le minacce alla democrazia non provengono solo da forze esterne, ma nascono spesso all’interno delle sue stesse strutture.

Il cinema ha da sempre svolto un ruolo fondamentale nel sollecitare riflessioni e critiche sulla società italiana che vuole raccontare. Il neorealismo, nato dalle macerie della seconda guerra mondiale, ha rappresentato un tentativo di rielaborare queste stesse crisi, ha mostrato senza filtri un Paese devastato ma pieno di umanità, offrendo una narrazione collettiva che invitava alla ricostruzione sociale e morale del Paese. Film come “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica non sono solo capolavori cinematografici, ma manifesti politici che riflettono la voglia di riscatto di un popolo.
Ma oggi il racconto della pur evidente sfiducia nella politica ha subito una trasformazione radicale. In un’epoca di piattaforme digitali e consumismo culturale, storie che un tempo erano specchi critici della realtà sono diventate prodotti da binge-watching, svuotati del loro impatto politico. Netflix, con la sua serialità ipnotica, è l’emblema di questa nuova cultura: offre narrazioni avvincenti, ma spesso frammentate e decontestualizzate, che catturano l’attenzione ma raramente stimolano un pensiero critico sul mondo reale.
Il passaggio dalla sala cinematografica al divano di casa rappresenta un cambiamento non solo tecnologico, ma sociale: guardare un film al cinema era un’esperienza collettiva, un rito che faceva incontrare e univa le persone; oggi la visione individuale di contenuti riflette una società sempre più isolata e meno propensa al confrontarsi e meno che mai al confrontarsi con garbato e umiltà.

Il crescente disincanto e la disillusione rispetto alla politica e alla partecipazione democratica si intravede anche nella cultura popolare, caratterizzata da narrazioni distopiche che mettono in scena mondi futuri dominati dal controllo, dalla sorveglianza generalizzata e dalla perdita delle libertà individuali. Libri come “1984” di George Orwell o serie come “Black Mirror” non sono semplici strumenti di intrattenimento, ma riflessioni potenti su una realtà che appare sempre più vicina al mondo che descrivono.
Queste opere, però, non solo criticano il potere, ma spesso ci mettono davanti a uno specchio scomodo: la nostra apatia, la nostra passività. Siamo spettatori di una democrazia in cui manchiamo come cittadini, ipnotizzati da schermi e algoritmi che conoscono i nostri desideri meglio di quanto li conosciamo noi stessi e che inconsciamente li condizionano. Le distopie ci affascinano perché ci parlano di noi, del nostro rapporto ambiguo con la tecnologia e con il potere, della nostra incapacità di reagire di fronte a un sistema che ci appare ineluttabile e da subire senza scampo.

L’apatia e la sfiducia nella vita democratica in Italia, e non solo, può essere letta anche attraverso la lente della psicologia di massa. Già all’inizio del Novecento, il sociologo Gustave Le Bon aveva descritto la folla come una soggettività emotiva, capace di azioni irrazionali ed esposta a manipolazioni attraverso il potere delle immagini e delle parole. Questo concetto è oggi più attuale che mai, in un’epoca in cui le piattaforme social amplificano l’emotività e l’irrazionalità collettiva, e la disinformazione si diffonde con una rapidità senza precedenti.
Il populismo sfrutta esattamente questa dinamica: il discorso politico si è trasformato in una gara di slogan semplici e immediati, in cui l’argomentazione razionale lascia il posto alla manipolazione emotiva. Le fake news, il gossip politico e le teorie del complotto prosperano perché parlano direttamente ai nostri istinti più profondi, alimentando un senso di scetticismo e di vittimismo, direi, che paralizza l’azione politica non solo istituzionale ma anche collettiva. E in questo scenario, anche l’intelligenza artificiale gioca un ruolo ambivalente: da una parte, offre strumenti per combattere la disinformazione; dall’altra, se utilizzata, come è possibile che avvenga, in modo non etico, può amplificarla, creando realtà parallele che minano ulteriormente la fiducia pubblica.

In questo contesto complesso e spesso sconfortante, emergono però anche forze di resistenza e resilienza. Meritocrazia Italia è un esempio di come il tessuto civile possa ancora reagire, tentando di rimettere al centro del dibattito pubblico i valori della competenza, della giustizia e della trasparenza. Il movimento si impegna per promuovere un modello di società che riconosca e valorizzi il merito, in un paese spesso soffocato da logiche clientelari e nepotistiche.
L’approccio di Meritocrazia è innovativo perché cerca di coniugare la partecipazione dal basso con l’esigenza di una maggiore professionalità nella gestione della cosa pubblica. Non si limita a denunciare le ingiustizie, ma propone soluzioni concrete: percorsi improntati sulla conoscenza, sulla competenza. Questo impegno si oppone direttamente a una politica ridotta a spettacolo e a una società che spesso sembra aver perso fiducia nelle sue stesse capacità di cambiamento. Iniziative come quelle di Meritocrazia Italia mostrano che la democrazia può ancora essere rivitalizzata, ma solo attraverso un impegno condiviso e comune che superi l’apatia e il cinismo dilagante.
La crisi di fiducia nella politica in Italia ci spinge a riflettere sul nostro rapporto con il potere e con la nostra identità collettiva. Forse la risposta più inaspettata e rivoluzionaria, consentitemi il termine, può arrivare proprio dalla cultura e da quel “pensiero creativo” che è capace di immaginare il mondo non solo per ciò che è, ma per ciò che potrebbe diventare. La politica non è solo gestione o strategia: è anche visione e sogno.

Riscoprire questo aspetto creativo della democrazia significa rompere con la rassegnazione e la sfiducia e riappropriarsi della capacità di immaginare un futuro e un presente diverso. È un atto di resistenza culturale, di partecipazione autentica che non si accontenta di essere mera spettatrice, ma che ambisce a tornare a essere protagonista della storia.
La democrazia, quindi, non è solo una struttura istituzionale, ma una forma di arte sociale, una sfida audace che può ancora sorprenderci, se avremo il coraggio di crederci e Meritocrazia ci offre questa opportunità.



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