Le PMI alla prova del passaggio generazionale
Politiche di ‘accompagnamento’
Il successo economico italiano è in larga parte determinato dalla presenza di imprese di piccole e medie dimensioni nel tessuto economico-aziendale.
La Commissione europea definisce le piccole e medie imprese come aziende con meno di 249 addetti, un fatturato annuo inferiore a 50 milioni di euro e un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro.
Per comprendere il ruolo di queste imprese nell’ambito economico e produttivo italiano, è utile analizzare i dati numerici.
Su 4,4 milioni di imprese attive in Italia, le microimprese, con meno di dieci addetti, rappresentano il 95,05% del totale, mentre le grandi imprese costituiscono solo lo 0,09%. Le piccole e medie imprese italiane, al contrario, sono 206.000, pari al 4,86% del tessuto imprenditoriale nazionale. Da notare che, singolarmente, queste imprese sono responsabili del 41% del totale del fatturato generato in Italia, occupano il 33% degli addetti del settore privato e contribuiscono al 38% del valore aggiunto del Paese.
Ecco perché è, alquanto, necessario ‘accompagnarle’ durante i loro processi di transizione, o meglio, durante il passaggio generazionale, che si configura come una delle fasi più critiche nella vita di un business.
Basti pensare che non solo, dal 1999 al 2004, il 74% dei fallimenti aziendali nel mondo è concomitante con la fase del passaggio generazionale, ma anche che la successione è considerata come la prima causa di fallimento aziendale. A tal riguardo, secondo quanto emerso dalla ricerca fatta dall’Associazione italiana delle aziende familiari, solo il 15% delle aziende familiari sopravvive al passaggio dalla seconda alla terza generazione; mentre, quelle che sopravvivono al fondatore sono circa il 31% e solo il 4% delle aziende arriva alla quarta generazione; di contro, solo il 23% delle PMI italiane è guidata da un titolare, che abbia più di settant’anni; mentre, solo il 18% delle aziende familiari prevede di pianificare un passaggio generazionale.
Ciascun processo di successione aziendale dovrebbe rispondere a due esigenze primarie, quali:
a) garantire la continuità aziendale, mediante l’ingresso di una nuova leadership che assicuri una buona gestione imprenditoriale, nonché produca risultati positivi;
b) garantire soluzioni eque, dal punto di vista patrimoniale, tra i diversi eredi, tenendo in debito conto non solo il valore dell’azienda, ma anche altri beni patrimoniali, in maniera tale da ridurre il più possibile i conflitti interni.
Il processo di successione aziendale, necessario per garantire la continuità dell’impresa e la giusta distribuzione patrimoniale tra gli eredi, spesso è ostacolato dalla rigidità dei tradizionali strumenti successori. In assenza di un testamento, la successione è regolata dalle norme del codice civile, che disciplinano la ‘successione legittima’. Questa procedura implica la stima concorde del valore dei beni ereditati e delle donazioni precedenti, generando potenziali conflitti tra gli eredi. Anche quando la successione è regolata da un testamento, possono sorgere complicazioni, poiché la volontà del testatore potrebbe essere limitata per tutelare i familiari più stretti, garantendo loro una ‘quota di legittima’ inderogabile. Questa quota, calcolata al momento dell’apertura della successione, potrebbe essere oggetto di contestazioni.
La difficoltà di garantire stabilità e certezza giuridica nel trasferimento generazionale dell’impresa è ulteriormente accentuata da fattori come variabilità del valore patrimoniale, disposizioni testamentarie revocabili, sopravvenienza di nuovi legittimari, e altri elementi.
Attualmente, molte imprese familiari italiane passano di generazione in generazione solo dopo la morte dell’imprenditore, causando talora una eccessiva frammentazione nella gestione e creando sfide per gli eredi nel gestire imprese di cui potrebbero non avere una conoscenza approfondita, né adeguate competenze imprenditoriali.
Per agevolare il passaggio generazionale, è stato introdotto nel 2006 l’art. 768 bis c.c. sui c.dd. patti di famiglia, che consentono agli imprenditori di trasferire l’azienda o le quote ad uno o più discendenti prima dell’apertura della successione.
Un istituto che presenta numerosi limiti applicativi, che incidono in maniera pregnante sulla sua utilizzabilità, atteso che richiede numerose condizioni: può utilizzarsi solo per trasferire l’azienda o le partecipazioni sociali ai discendenti e non al coniuge, né a fratelli, nipoti o soggetti estranei alla famiglia; e i beneficiari devono liquidare ai futuri legittimari una somma di denaro, o l’equivalente in natura, il cui valore è determinato al momento della stipula del patto, tenendo conto dei criteri della successione ereditaria. Altro limite potrebbe essere costituito dal fatto che l’imprenditore non può, attraverso di esso, sperimentare la qualità imprenditoriale del proprio successore, prima di ‘passare il testimone’, programmando il già menzionato ricambio.
Al fine di favorire il passaggio generazionale nelle PMI italiane a carattere familiare sarebbe opportuno introdurre una modifica alla disciplina sul patto di famiglia, consentendo il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali anche a soggetti estranei al nucleo familiare, che a titolo di onere dovrà liquidare entro e non oltre il termine di 10 anni, le quote di legittima spettanti ai legittimari con concessione d’ipoteca legale o pegno a garanzia dell’adempimento dell’onere.
Modifica meriterebbe anche la regola del legato in sostituzione di legittima (art. 551 c.c.), nel senso che il legittimario legatario dovrebbe poter rinunziare al legato e chiedere la legittima soltanto se il valore del legato ricevuto sia inferiore di oltre il quarto al valore della legittima ad esso spettante (analogamente alla previsione di cui all’ art. 763 c.c.).