L’UMILTÀ DI SAPER AGIRE – 14 FEBBRAIO 2021
Nacque nel 1813, nella provincia di Parma, uno dei geni musicali più noti al mondo. Giuseppe Verdi, vanto del patrimonio artistico nazionale.
Capita a tutti di vivere con rassegnazione le inevitabili difficoltà della vita, e di cedere allo sconforto della negatività. Che si fa spesso ignavia. Soffoca e annulla le personalità.
La vita di Verdi offre, invece, un modello virtuoso di coraggio e resilienza. I drammi personali e le forti sconfitte professionali non consumarono la sua voglia di esprimere la passione per la musica e di dar valore ed espressione alle capacità. Un percorso in salita, fatto di costanza e resistenza, di amore e passione. Reso più difficile da un contesto sociale poco incline alla premiazione del merito e alla esaltazione dei talenti, eppure complicato dalla presenza sulla scena di nomi di grande peso come Rossini e Donizetti, tra gli altri, che promuovevano un motivo musicale diverso, quello proprio del romanticismo. Verdi non rinunciò alla ricerca di spazi d’espressione del proprio buio interiore e di modi per raccontare in note la propria esperienza di dolore. E poi arrivò il Nabucco, a rappresentare la reazione del Popolo ebreo all’oppressione babilonese; una storia di schiavitù e rivalsa. Da qui, il successo, a livello locale e internazionale.
E «Va’, pensiero» si è fatto messaggio di resilienza. Un messaggio che il tricolore porta in sé ancor oggi, dopo esser passato per la conquista dell’unità d’Italia.
La storia insegna. Ma va studiata e compresa.
Gli affanni del tempo hanno scoraggiato la lotta per l’affermazione degli ideali. Si è persa di vista l’importanza del contatto umano e la forza dell’azione collettiva.
E aumentano i punti di debolezza.
Basta guardarsi intorno.
Dinanzi al grave stato nel quale versa il sistema Giustizia, vittima di infedele gestione e controproducente spettacolarizzazione, nessuno si indigna più a sufficienza. Non scuote a sufficienza gli animi il fatto che gip, pm e gup, formalmente chiamati a svolgere funzioni differenti, nei fatti spesso finiscano per sovrapporre i ruoli per via dell’appartenenza alla medesima corrente politica. Accade che il pensiero di tutti sia allineato, salvo scoprire che il 40% dei procedimenti finisce con l’assoluzione con formula piena in primo grado. Ma nessuno lo nota.
La giustizia tradisce la sua originaria funzione.
Chiedere la separazione delle carriere giudicante e inquirente, la regolazione dell’associazionismo interno alla Magistratura con divieto assoluto di costituzione di correnti politicizzate, una riforma di settore che investa l’assetto costituzionale dell’ordine giudiziario e la struttura del CSM, o il divieto dell’assunzione di incarichi politici da parte dei magistrati fuori ruolo non vuol dire agire in odio alla magistratura. Vuol dire soltanto reagire al malaffare e a fenomeni di infedeltà alla missione purtroppo esistenti. La sete di potere individuale di alcuni si ripercuote negativamente sull’effettività dei diritti dei cittadini ed espone all’attacco mediatico alimentato dal giustizialismo e del moralismo. Non si contano i casi di cittadini lungamente esposti alla gogna prime di ricevere una giusta assoluzione, con le conseguenti pesanti ripercussioni sul piano delle relazioni familiari, sociali e lavorative.
Di fronte a questo, l’indifferenza vince e il Popolo sceglie di non indignarsi. Disorientato. Abbandonato a sé e senza guida.
Guardiamo al dito senza vedere la luna. Giudichiamo le debolezze dei singoli e ci giriamo dalla parte opposta alle pericolose storture.
Occorrerebbe riconquistare il coraggio dell’operosa indignazione, per riportare il pensiero «sulle ali dorate» della libertà e dell’autonomia.