MI: sull’autonomia differenziata andrebbe valorizzata la coesione sociale del Paese
E’ approdato in Senato per l’inizio del suo iter parlamentare, dopo sei mesi di dibattiti nella Commissione Affari Costituzionali, il disegno di legge in tema di autonomia differenziata, approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri.
Fulcro del progetto di riforma è il disposto dell’art. 116 Cost., che consente l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di un’autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente (e in tre casi anche di materie di competenza esclusiva dello Stato), con la connessa possibilità di trattenere il gettito fiscale connesso a tali ambiti, così che lo stesso non risulti più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive.
Le materie sono quelle di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost, rappresentative di un vasto ambito di decentramento di competenze, tra le quali spiccano salute, lavoro, ambiente, istruzione e molto altro.
Come sempre avviene nel nostro Paese, però, il dibattito è stato immediatamente polarizzato su posizioni opposte ed intransigenti, considerando come le contrapposte argomentazioni dei fautori e degli avversatori della tematica si attestano su vessilli ideologici e retorici di chiaro impatto emozionale, in quanto per i sostenitori la riforma dell’autonomia differenziata comporterebbe il beneficio di una migliore efficienza e controllo della spesa, mentre, per gli oppositori, tale intervento condurrebbe alla nefasta creazione di uno strumento per aumentare le disuguaglianze tra regioni più ricche e meno ricche.
Ma se entrambe le tesi contenessero presupposti di verità e profili di strumentalità, più che adottare la solita, stantia ed inutile logica dello schieramento prioristico a sostegno dell’una o dell’altra fazione, sarebbe forse più auspicabile ragionare sulle positività e sulle criticità nel merito della proposta e della tematica più in generale, così da contribuire al dibattito in maniera più adeguata, come sempre tenta di fare Meritocrazia Italia.
Se pur vero che la riforma potrebbe rappresentare un’occasione unica ed un’opportunità forse proprio per le Regioni del Sud di riorganizzare le proprie modalità di offerta di servizi ai cittadini, impegnandosi in una rivoluzione di sistema che presuppone una elevata dose di coraggio ed intraprendenza, è altrettanto vero, sotto altro profilo, come si riproponga con forza il problema della tutela dei LEP, ovvero dei Livelli essenziali delle prestazioni, quali standard minimi dei servizi che devono essere garantiti in tutte le Regioni che rappresentano una tutela per i “diritti civili e sociali” dei cittadini, come sancito dalla Costituzione.
Il testo della riforma prevede il termine di 12 mesi di tempo per determinare i livelli minimi ed essenziali delle prestazioni che dovranno essere rispettati dalle Regioni nella gestione delle loro competenze, in modo da avere una certa uniformità nel Paese in temi cruciali come salute, scuola, ambiente e beni culturali.
Ma la storia insegna che gli stessi non hanno mai visto luce, se non parzialmente (in sanità sono stati definiti i Livelli Essenziali di Assistenza, “LEA”) tanto che già nell’articolo 1 del Ddl Calderoli, comma 2, si legge che “L’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (..) è consentita subordinatamente alla determinazione (…) dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.”.
Senza intesa sui Lep, tuttavia, si vorrebbe procedere secondo il criterio della spesa storica, con la conseguenza che chi più ha speso negli anni per i servizi corrispondenti alle funzioni, più riceverà. Ed è proprio questa la disposizione al centro delle contestazioni, subito ribattezzata dagli oppositori come la “secessione dei ricchi”, visto che così le regioni del Nord risulterebbero enormemente avvantaggiate rispetto a quelle del Sud.
Meritocrazia Italia ha sottoposto a votazione sul web questa tematica, ottenendo una grande partecipazione, con una totale contrarietà a questo procedimento, sintomo di un disagio che non può essere sottovalutato nella discussione parlamentare.
Pertanto sarebbe importante coinvolgere, in queste problematiche e discussioni parlamentari, la cittadinanza attiva, attraverso incontri sul territorio, visto che le stesse potrebbero di fatto creare una NUOVA STRUTTURA ITALIA, soprattutto in controtendenza rispetto al concetto si opterebbe per un governo territoriale frazionato.
In verità, più che di una questione tra Nord e Sud, si tratterebbe della diversificazione di un modello gestionale e amministrativo che ha mostrato e continua mostrare i suoi limiti con ricadute importanti nella vita quotidiana dei cittadini. Pensiamo, infatti, ai risultati prodotti dalla riforma del Titolo. V della Costituzione ad oggi, evidenziando come i livelli di prestazioni negli ambiti attribuiti alle Regioni siano mediamente calati con notevoli disagi, soprattutto nella sanità, mentre non sono state traguardate quelle “riduzioni di spese” originariamente attese. Nei fatti, invero, non soltanto non sono stati raggiunti gli obiettivi promossi dalla riforma in termini di efficienza e di efficacia, ma si è verificato un regresso complessivo in servizi prestati ai cittadini ed i costi si sono rivelati, mediamente, più elevati. E nella stessa fase attuativa delle progettualità legate al Pnrr si è evidenziato come allo stato dell’arte manchino competenze indispensabili a portare a compimento le progettualità e molto spesso vi sia una carenza nella fase di pianificazione con interventi spesso dettati più dal “dover fare” che non dalla visione del “perchè fare”.
Il problema, in realtà, non riguarda solo la definizione dei LEP, ma anche le risorse finanziarie che servirebbero per la loro attuazione. Per attuare, infatti, l’autonomia differenziata lo Stato dovrebbe privarsi di ingenti risorse mentre le Regioni diventerebbero più grandi e decisive, anche sotto l’aspetto politico oltre che economico/finanziario. E qualora ciò avvenisse, lo Stato avrebbe meno risorse e forza politica per continuare a garantire i LEP lungo la penisola o per supportare la perequazione infrastrutturale.
In tale complesso contesto in divenire, Meritocrazia Italia invita alla prudenza ed alla valutazione del rapporto costi/benefici reali per il sistema Paese, invocando un’attenta analisi delle prerogative essenziali per l’adozione di una modifica strutturale di tale impatto, chiedendo:
a) la preventiva disamina e verifica delle risorse/competenze indispensabili a gestioni di gran lunga più complesse delle attuali in materie fin ad ora di competenza nazionale;
b) l’accelerazione sulla determinazione effettiva dei livelli essenziali delle prestazioni e sulle performance di comparto;
c) la definizione delle materie che possono essere trasferite tramite intesa, risultando forse inopportuno un trasferimento di competenze in blocco, potendosi concentrare invece l’attenzione sulle materie che, se trasferite, potrebbero essere gestite meglio ad un livello istituzionale più prossimo al territorio. In un’epoca in cui l’Italia ha scelto di delegare alcune materie alla competenza sovranazionale dell’Unione europea per ragioni di armonizzazione e per avere maggiore peso geopolitico, parrebbe azzardato trasferite tutte le competenze previste dall’articolo 116 ad una o più Regioni;
d) prevedere altresì una soglia massima di compartecipazione al singolo tributo erariale che le Regioni potranno ottenere in sede di intesa, al fine di tranquillizzare i cittadini sul fatto che lo Stato avrà comunque le risorse necessarie per assolvere alle sue funzioni non delegabili.
Meritocrazia Italia, in sintesi, chiede che si apra un tavolo di confronto con il coinvolgimento delle migliori competenze e delle stesse forze di cittadinanza attiva, al fine di valutare, in maniera effettiva i pro e contro di una simile riforma di sistema, senza alcun limite ideologico e di appartenenza politica ma solo al fine di scegliere la strada migliore per i cittadini ed il Paese.
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