NEET O NEED… QUESTO E’ IL DILEMMA!
Secondo la definizione dell’ISTAT, in Italia, i giovani inattivi (NEET) nella fascia d’età 15-29 anni sono pari a 2.116.000, rappresentando il 23,4% del totale dei giovani della stessa età presenti sul territorio. I dati sono ancora più spaventosi se ci soffermiamo sull’incidenza del fenomeno in Campania pari al 35,9%.
L’acronimo inglese Not in Education, Employment or Training ha conquistato l’onore della cronaca nazionale in epoca relativamente recente, con un aumento vertiginoso delle sue occorrenze in relazione agli effetti della crisi economica, divenendo una categoria statistica ormai difficilmente ignorabile.
Una parte dei media tratta la questione dei NEET e dei giovani campani, in particolare, come quella di una generazione contraddistinta dalla passività e dall’“inattivismo”, descrizione ampiamente smentita dalle ultime indagini ISTAT, che rilevano come nel Mezzogiorno la quota dei Neet interessati a lavorare è notevolmente più alta rispetto ad altre regioni.
Tale dato, oltre a far venire meno le critiche sterili a cui quotidianamente è sottoposto il territorio campano, pone in luce un altro problema strettamente connesso con quello del mondo dei NEET al sud, ovvero l’inoccupazione, figlia della carenza di opportunità causata da una economia depressa e che tiene ai margini del mercato del lavoro anche i giovani che vorrebbero entrarvi.
Si assiste, infatti, immotivatamente e troppo celermente, a una costante colpevolizzazione di una generazione che diventa così rappresentazione del parassita, immagine che a sua volta innesca nei giovani un circolo vizioso di demotivazione e senso di inadeguatezza.
Il “merito” di questa categoria, invece, è di avere spostato l’attenzione dal tema della disoccupazione strettamente intesa, come ricerca di lavoro non coronata dal successo, a quello più ampio dell’inoccupazione, con la sua componente di inattività, vero elemento distintivo fra le condizioni dell’Italia, della Campania nello specifico, al sestultimo posto a livello europeo per carenza occupazionale giovanile, e la media europea stessa.
Il ciclo, discendente fino al 2007 e ascendente negli anni della crisi, dei NEET è in realtà comune alle principali società europee, ma il livello italiano, ed in modo particolare quello campano, è costantemente più alto, a causa delle dimensioni tradizionalmente elevate dell’inattività, legata a fenomeni di disoccupazione di lunga durata, di scoraggiamento, ad un eccesso di “assistenzialismo” e all’autoesclusione dal mercato del lavoro delle donne, investite, specie in presenza di bassi titoli di studio, da una gestione esclusiva delle responsabilità familiari.
Il ritardo dei giovani campani nell’inserirsi nel lavoro, spesso ricondotto al tema di una più generale “sindrome del ritardo”, è in effetti un fenomeno non recente e molto studiato.
La nuova etichetta di NEET, infatti, nasconde, in realtà, problemi strutturali di lunga durata come quelli del basso tasso di occupazione femminile, dei divari territoriali, della scarsa mobilità sociale delle nuove generazioni rispetto a quelle dei padri e soprattutto della piaga del lavoro sommerso.
Miriadi di giovani che svolgono la loro attività senza un regolare contratto o, comunque, senza la regolarizzazione richiesta dalla legge e pertanto, agli occhi ignari dello Stato, risultano anch’essi annoverabile nella lunga lista dei “giovani senza speranza.”
Questo scenario inevitabilmente ci induce a contestualizzare il fenomeno e soprattutto a ridimensionare l’originalità dello stesso.
In Campania, l’aggregato statistico-economico dei NEET racchiude, infatti, al suo interno un mondo giovanile composito ed eterogeneo. Le differenze riguardano elementi oggettivi quali il genere, l’età, il livello di istruzione, la tipologia di percorso di studio, le caratteristiche della famiglia d’origine, il luogo di residenza; ma anche elementi più soggettivi, quali le aspettative e le strategie scolastiche e professionali.
Al di là delle differenti classificazioni statistiche e dell’esercizio di conteggio e rilevazione del numero dei NEET, una riflessione articolata sulle diverse figure che rientrano in tale categoria non può prescindere da variabili più complesse, che fanno riferimento al ruolo di alcune istituzioni quali “famiglia”, sistema educativo, sistema produttivo e mercato del lavoro.
Queste strutture, i cui attributi attuali si sono formati in gran parte nel corso del Novecento, sono adeguate a rispondere alle esigenze di una società le cui trasformazioni appaiono sempre più veloci e imprevedibili?
Una riflessione non banale sul fenomeno NEET, dunque, appare inscindibile dal tentativo di dare risposta a questa domanda.
Di fronte ai cambiamenti intervenuti nel sistema produttivo, infatti, sempre più aperto alla concorrenza internazionale, il nostro paese si è fatto trovare impreparato, anche a causa della debolezza delle riforme che ne avrebbero dovuto accompagnare il mutamento.
La crisi che attanaglia il Paese, solo accentuata dall’emergenza Covid, dunque, condiziona non solo il sistema valoriale, ma anche le aspirazioni lavorative e gli obiettivi professionali, che nella maggior parte dei casi risultano decisamente limitati.
Di fronte a questo scenario così drammatico chissà se qualcuno si è mai domandato cosa pensano i giovani NEET della loro condizione? Come vedono sé stessi e i loro coetanei?
I giovani, tutti, da sempre, mostrano una capacità di lettura e di analisi della situazione della loro generazione lucida e precisa, in grado di cogliere perfettamente le difficoltà che caratterizzano il percorso di transizione verso l’età adulta e l’autonomia.
Non di pari livello si rivela invece la capacità di avanzare idee e proposte, di fornire possibilità concrete da parte delle istituzioni che, gravosamente, sottovalutano il potenziale giovani. I giovani di oggi rappresentano la classe sociale, economica e politica del domani.
Ciò che si chiede allo Stato ed al settore pubblico è di intervenire direttamente o indirettamente – sovvenzionando le aziende – per creare opportunità di lavoro per le giovani generazioni.
Ancora, è necessaria una maggiore regolamentazione dei contratti e della modalità di lavoro, in modo da eliminare il precariato ed impedire l’uso improprio di stage e tirocini.
Volendo, allora, ancora una volta utilizzare un neologismo inglese più che di NEET dovremmo parlare di NEED, la cui traduzione letterale è bisogno.
Si bisogno, bisogno di essere compresi ma prima di tutto ascoltati. Troppo facile additare in maniera sterile le colpe a una generazione la cui unica colpa è di essere nata in un periodo storico “sbagliato”, in cui sono venuti alla luce gli errori legislativi e decisionali dei decenni precedenti.
Bisogna, dunque, promuovere una cultura del lavoro e dell’impegno che si distacchi da concezioni legate al “posto” ma che tratti alla pari ogni forma di operosità sociale, creando un circolo virtuoso che porti a chiudere il cerchio opportunità- formazione- lavoro in un continuum senza cortocircuiti di sistema.
Istituti come quello del “reddito di cittadinanza”, dunque, vanno rivisti verso una reale proattività perché nessuno sia lasciato realmente indietro nell’oblio del ”dolce far nulla”.
Al pari ingenti capitali devono essere investiti nella formazione e nella creazione di canali a sostegno in grado di poter arginare l’abbandono scolastico.
Una lotta serrata, poi, ad ogni forma di sfruttamento del lavoro giovanile deve essere alla base di una manovra sinergica atta a riequilibrare il “sistema lavoro”, mettendo il PIU (Prodotto Interno Umano) come principio basilare di un quadro normativo che non può fermarsi a progetti, che seppur densi di ottimi intenti, leggasi progetto Garanzia Giovani, restano estemporanei e non parte organica di un piano per il lavoro, urgente ed improcrastinabile.