‘Nuovo Patto di stabilità’
Luci e ombre
Il principio di sostenibilità del debito pubblico, introdotto dalla novella del 2012 (l. cost. n. 1 del 2012), ha inteso avviare una razionalizzazione delle procedure di finanza pubblica anche in una prospettiva di tutela e di responsabilità nei confronti delle generazioni future.
L’applicazione ultraventennale del patto di stabilità e crescita ha mostrato non poche criticità applicative che adesso rischiano di essere acuite a seguito delle crisi di varia natura (finanziaria, sanitaria, energetica) che gli Stati membri dell’Unione hanno dovuto affrontare nel corso del tempo e della situazione geopolitica legata al perdurare della guerra in Ucraina.
Non sono poche le disfunzionalità da superare, tra cui la crescente eterogeneità delle posizioni di bilancio dei diversi Stati membri, le politiche nazionali rimaste spesso pro-cicliche, e le regole di bilancio dell’Europa, complesse e legate a indicatori non osservabili e, quindi, poco trasparenti, come il saldo strutturale. A ciò vanno aggiunti i caveat che possono essere raccolti dagli effetti delle varie crisi, quella pandemica in particolare, in occasione della quale si è dovuta peraltro attivare la clausola generale di salvaguardia del Patto di stabilità e disporre un allentamento della disciplina degli aiuti di Stato.
Nella proposta di riforma del patto di stabilità al centro del nuovo quadro di governance avanzato, vi è la sostenibilità del debito coniugata a una crescita sostenibile e inclusiva, prevedendosi percorsi diversificati in ragione delle diverse situazioni debitorie dei vari Stati membri.
L’approccio di fondo sembra porsi in una prospettiva profondamente diversa rispetto al passato: verrebbe abbandonata la regola che prevedeva l’applicazione di misure uguali per tutti gli Stati membri a favore di un gradualismo nella riduzione del debito agganciato a un indicatore di finanza pubblica rappresentato dal tasso di crescita annuale della spesa primaria e netta. La Commissione Europea prospetta un quadro di sorveglianza declinato sulla base del rischio, proponendo di far venir meno l’attuale parametro di riduzione del debito nella considerazione che, per gli Stati con una situazione debitoria molto elevata, la sua applicazione sarebbe esiziale per la crescita e per la stessa sostenibilità del debito.
La “pietra angolare” di questa nuova architettura sono i piani strutturali nazionali di bilancio a medio termine, in cui ciascuno Stato membro presenta la traiettoria della spesa netta della durata di almeno 4 anni, ma estensibili a 7 (a certe condizioni) dove inserire, in coerenza con i rispettivi PNRR, investimenti e riforme che possano condurre a una maggiore sostenibilità del debito, ma anche a una crescita sostenibile.
L’idea è quella di racchiudere in un piano nazionale a medio termine, unico e integrato, il percorso di aggiustamento del debito, senza una metrica quantitativa di riduzione definita ex-ante e al contempo quello di una crescita sostenibile all’insegna della transizione ecologica e digitale. Rimarrebbero invariati i valori di riferimento del 3% del deficit e del 60% del debito rispetto al PIL; i Paesi con deficit sopra il 3% e debito sopra il 60% dovranno presentare dei piani personalizzati di rientro.
Bruxelles indicherà una ‘traiettoria tecnica’ per ridurre il debito, con l’obbligo di un taglio annuo del deficit di almeno lo 0,5%; in presenza di investimenti strategici (green, digitale e difesa) e riforme, il piano potrà essere esteso a sette anni; in caso di deviazione dal piano, scatterà in automatico una procedura d’infrazione per deficit eccessivo.
La riforma proposta del nuovo Patto di stabilità presenta luci e ombre e i temi di riflessione sono tantissimi.
Dalle modifiche, risulterebbe un ruolo particolarmente penetrante della Commissione, in special modo per quei Paesi ad alto rischio debitorio. Soprattutto in questi casi, per le politiche di bilancio nazionali si corre il rischio di attribuire alla Commissione funzioni di indirizzo nei confronti delle politiche di bilancio nazionali che si pongono oltre il limite dei Trattati.
Infatti, delle tre variabili (tasso di interesse del debito, tasso di crescita del reddito reale e rapporti di disavanzo) che guidano il percorso debito/PIL, le ultime due sono il risultato di stime operate dalla Commissione. Sì che la Commissione assurgerebbe a ‘giudice della sostenibilità del debito degli Stati membri’.
Tra i possibili rimedi uno potrebbe essere quello di prevedere un rafforzamento del ruolo delle istituzioni di bilancio nazionali indipendenti (IFI) con la supervisione di uno European Fiscal Council indipendente dalla Commissione da coinvolgere nel processo di valutazione.
A questo profilo è collegato quello relativo al rafforzamento della titolarità nazionale, che viene indicato come punto di forza della riforma proposta, ma che, di contro, rischia di essere svuotato dalle spinte accentratrici della Commissione.
Un altro potenziale cono d’ombra può essere ravvisato nell’aver introdotto l’analisi di sostenibilità del debito alla base della valutazione della traiettoria calante del debito, atteso che questa è una operazione tecnicamente molto complessa, con notevole possibilità di errori previsionali che farebbe rientrare dalla finestra alcune variabili macroeconomiche (tra cui il tasso di crescita futuro del PIL), ritenute poco trasparenti e fatte uscire, nell’ipotesi riformatoria, dall’ingresso principale.
Altro tema di riflessione è legato alle ricadute della riforma sull’ordinamento interno: venendo meno il processo di convergenza annuale all’obiettivo di medio termine specifico per ogni Paese, andrebbe valutata l’opportunità di rimodulare tutte quelle disposizioni costituzionali e non (ivi compresa la legislazione di contabilità pubblica) che fanno riferimento all’equilibrio strutturale di bilancio.
Sorprende che nel dibattito pubblico sulla riforma del Patto di Stabilità manchi qualsiasi riferimento a uno dei principali problemi di finanza pubblica che ha interessato l’area dell’euro negli ultimi anni e che rimarrà anche nei prossimi.
Non vi è alcuna discussione sulle esternalità negative che potrebbero derivare da un aggiustamento eccessivamente restrittivo delle finanze pubbliche di un paese.
Il Patto in corso di modifica parte dal presupposto che solo disavanzi eccessivi possono creare esternalità negative. Ciò deriva dal fatto che, nel periodo in cui è stato negoziato il Trattato, gran parte dei paesi erano in disavanzo. È ben noto invece che anche le politiche troppo restrittive, e in particolare gli attivi di bilancio, soprattutto in Paesi sistemici, possano produrre effetti indesiderati sul resto dell’Unione.
Il caso più emblematico riguarda la regola costituzionale di bilancio tedesca, che obbliga il Paese a essere sistematicamente in attivo di bilancio, eccetto in condizioni di grave recessione. L’attuazione di tale regola ha portato in passato il saldo di bilancio tedesco ad accumulare un attivo crescente e un calo rapido del debito pubblico, ma la restrizione fiscale ha impresso un effetto deflattivo in tutta l’Unione, sovraccaricando la politica monetaria rispetto al suo obiettivo di stabilità dei prezzi.