Obbligo o divieto del velo islamico
La soluzione è sempre la (vera) libertà
La cronaca racconta delle dure azioni della c.d. ‘polizia della moralità’ iraniana e del frequente ricorso a torture, maltrattamenti e uccisioni durante le detenzioni.
Ultima, la notizia della morte di una giovane in custodia che non avrebbe indossato correttamente il velo.
Un episodio non isolato.
Fatti che sembrano lontani nello spazio, e appartenenti a una realtà difficile anche solo da concepire.
Negli ultimi trent’anni, tanto si è discusso sull’uso del velo islamico anche fuori dai confini iraniani; un argomento che ha animato il dibattito anche in Italia.
A fronte del progressivo multiculturalismo che caratterizza l’area europea, riflettere con lucidità sulla questione è fondamentale, per l’effettività dei diritti delle donne musulmane e per la vera uguaglianza tra i sessi.
Attualmente, in Europa, sono in atto limitazioni sull’uso del velo in Francia, Danimarca, Austria, Bulgaria, Belgio e Paesi Bassi, e si ragiona sull’opportunità di misure simili anche in molti altri Paesi dell’Unione, tra i quali Italia, Svizzera e Norvegia.
La convinzione è che, impedendo l’utilizzo del velo, le donne musulmane possano acquistare veramente libertà.
Nell’immaginario collettivo, infatti, il velo è ricondotto all’integralismo islamico e le donne musulmane sono oppresse, incapaci di volontà individuale e autonomia di pensiero, succubi di arretratezza culturale, quando non agenti del terrorismo.
Ma il codice d’abbigliamento islamico racchiude significati diversi, sconosciuti all’opinione comune, ed è spesso utilizzato come strumento per esprimere visibilmente la propria identità religiosa.
Credere che tutte le donne musulmane non comprendano gli effetti discriminatori del velo e che semplicemente soggiacciano costrette da una cultura retrograda ha l’unico l’effetto di vittimizzarle ulteriormente e di sottovalutare l’importanza di vere e proprie scelte esistenziali.
È anche sulla base di questa limitata valutazione che, nelle società europee, le donne musulmane sono spesso vittime di atti di razzismo e violenza.
Non è un caso che i due provvedimenti normativi francesi, del 2004 e del 2010, che vietavano di indossare il burqa e il niqāb negli spazi pubblici, trovarono il sostegno di varie organizzazioni antirazziste e pro-immigrazione, e furono fortemente volute anche da un numeroso gruppo di rinomate femministe che, partendo da una concezione neoliberale di società, consideravano il velo il simbolo più manifesto della dominazione maschile nel mondo islamico.
Per altro verso, si registra una fortissima insofferenza nei confronti della legge, promulgata a seguito della rivoluzione islamica del 1979, che obbliga a coprire il capo.
Le soluzioni radicali, che non tengono conto delle peculiarità delle situazioni e della libertà di autodeterminazione personale, non colgono mai nel segno. Imporre un codice di condotta religiosa, assunto come inequivocabilmente giusto e dovuto, è irrispettoso tanto quanto vietarlo in maniera assoluta.
Banalizzare lo è ancora di più.
Nel riguardo dei principi di ordine pubblico e dei diritti fondamentali e nel rispetto delle istanze di sicurezza, la strada sia sempre quella della libertà di scelta.
Da incoraggiare, preservare e difendere, sempre.