Per tornare a vedere
La letteratura ci insegna a immaginare ciò che non conosciamo, a capire ciò che non sentiamo vicino, a pensare di poter essere quell’altro che non siamo. Ci offre speranza, se solo comprendiamo che essa non è mai parola morta, ma sempre e comunque voce di un presente che ci chiama a intervenire per cambiare il corso delle cose.
Un uomo è fermo al semaforo con la sua auto, quando all’improvviso non vede più nulla. È questo l’incipit di ‘Cecità’, capolavoro dello scrittore portoghese Josè Saramago, premio Nobel per la letteratura nel 1998. In un tempo e in un luogo non precisato, all’improvviso, l’intera popolazione perde la vista per un’inspiegabile epidemia. Chi viene colpito dal male è come avvolto in una nube lattiginosa. Le reazioni psicologiche che ne conseguono sono devastanti. La cecità cancella ogni pietà e fa precipitare gli uomini nella barbarie, scatenando un brutale istinto di sopravvivenza. Saramago compie una lucida analisi della natura umana, per scoprire un’umanità incapace di vedere e distinguere le cose razionalmente. L’indifferenza, l’egoismo, il potere e la sopraffazione creano una guerra di tutti contro tutti. Il trionfo dell’homo homini lupus di Hobbes, della legge del più forte e delle dinamiche sociali che si creano all’interno di un’emergenza. Non c’è modo di convivere pacificamente, c’è solo un’estenuante lotta in cui, alla fine, è sempre il più forte, il più astuto, il più abile ad averla vinta.
Nel racconto, durante la quarantena un unico gruppo detiene il possesso del potere e mantiene gli altri ciechi in una fame costante. È l’egoismo di pochi che ha la meglio sulla sofferenza di molti, nonché la rappresentazione dell’imperialismo e del capitalismo. La cecità non è una menomazione fisica, non riguarda gli occhi ma una condizione insita nella propria natura, è il buio della ragione, il virus più letale, quello che riconduce gli uomini ad uno stadio primitivo, al male.
‘Cecità’ è una storia fatta di anime senza vista, allo sbando, una lunga metafora dell’egoismo umano, simbolo dell’indifferenza dell’umanità contemporanea; l’incapacità di fare e pensare al bene ci rende tutti ciechi, pure quando vediamo.
Individui obbedienti solo al proprio appetito e tornaconto.
Non esistono più concetti di giustizia e ingiustizia, equità e iniquità. Lo stesso potere politico si mostra miope, un fantomatico Leviatano si erge al di sopra della città senza alcuna prospettiva.
È incredibile come l’uomo non riesca ad imparare dai propri errori. I governanti non hanno recepito la lezione della storia secondo la quale lo stato ha il compito ben preciso non solo di garantire la vita e la prosperità dei cittadini, ma di educarli alla ragione, in un’ottica di solidarietà. Laddove la sopraffazione ha la meglio sulla mutua assistenza, il potere politico si sgretola.
Come fronteggiare tutto questo?
Come uscirne?
La sola via è quella di ridare un senso nuovo alla vita, cercando la luce e la salvezza nella razionalità, nell’altruismo e nella generosità, che nel racconto è rappresentata da una donna ancora vedente, unica eccezione a questo spietato individualismo, colei che si immola per il suo prossimo rinunciando al proprio vantaggio sugli altri. Questo fa di lei una persona saggia e quindi in grado di accedere alla vista, perché vedere non significa solamente distinguere forme e colori, ma è qualcosa di più profondo.
Oggi l’emergenza ci ha fatto scoprire di aver bisogno gli uni degli altri, ma siamo stati ciechi che vedono. La cronaca ci raccontava di medici aggrediti nelle corsie, nelle autoambulanze; in tempo di pandemia sono diventati i nostri eroi. Ma siamo stati ciechi che vedono, e continuiamo a non vedere l’Antartide senza neve e i diritti umani calpestati in tutto il mondo
La necessità dell’emergenza ha svelato l’egoismo della nostra quotidianità, ha svelato il valore della vita umana rispetto all’economia. Un’economia che ha condizionato la vita al punto tale da aver portato la sanità pubblica allo stremo. Noi non potevamo prevederlo, dicono, ma prevedere è l’obiettivo della politica. Il progresso mal gestito, l’avere prima di ogni cosa, rende l’uomo egoista e naturalmente portato all’indifferenza.
Viviamo in un tempo pieno di contraddizioni, ma l’umanità non è un fattore biologico, non è una specie identificata dalla genetica, è un modo di saper stare insieme, l’uno accanto all’altro, è riuscire a vedere nell’altro la sua vera essenza, qualcosa di degno del nostro rispetto, della nostra compassione e del nostro amore. Ricordando che la cecità toglie speranza al mondo.