PIEMONTE, MAGLIA ROSA IN TEMA DI NEET
La schiera dei cosiddetti NEET, ovvero i giovani che non studiano, non lavorano e non si formano, è da analizzare a fondo e da affrontare con misure efficaci e produttive. Deve essere, in pratica, oggetto di importanti azioni “culturali”.
Secondo i dati Istat, al 2016 in Piemonte i NEET in età compresa fra i 15 e i 34 anni erano 185mila, pari al 19,2% della popolazione interessata, una delle percentuali più alte fra le regioni industrializzate del centro Nord: in molti casi giovani che non lavorano per scelta e non per mancanza di un’offerta, troppe volte ritenuta inadeguata alle loro aspettative, inconsapevoli del fatto che soltanto partendo “dal basso” o perfezionandosi negli studi con fatica e dedizione possono imboccare la strada per arrivare al successo, alla realizzazione dei propri sogni e delle proprie legittime ambizioni.
La difficoltà principale nel combattere il fenomeno si scontra con il fatto che non esiste una anagrafe degli studenti, uno strumento da cui attingere informazioni utili a intercettare i soggetti a rischio o caduti nella “sindrome NEET”.
Di banche dati da cui attingere, ce ne sono almeno tre – sistema delle Regioni, MInistero della Pubblica Istruzione, Ministero del Lavoro (delega alle Regioni) –, ma non dialogano tra loro e non consentono una “tracciabilità” del percorso formativo di ogni studente e ci si deve affidare a dati meramente statistici.
La problematica è sotto attenzione dei governi nazionali e molto sentita dalla Commissione Europea, che, attraverso i Fondi Strutturali Comunitari, propone agli Stati membri cospicue linee di finanziamento: in Italia il programma “Garanzia Giovani” è predisposto per avvicinare al mondo della formazione e anche del lavoro, attraverso proposte di valutazione delle competenze e delle capacità, per delineare un tirocinio, un percorso formativo oppure anche la possibilità di incontrare una risposta nel contratto di apprendistato.
Questo in teoria, perché nella pratica i soggetti “NEET” devono attivarsi e prendere contatto con gli enti che svolgono le politiche attive, ma se per definizione i NEET non “cercano”… è assai difficile che l’offerta possa raggiungere i potenziali destinatari!
Poiché il punto di contatto è così labile, il primo obiettivo indispensabile è il dialogo tra le banche dati sopra menzionate, almeno per poter ritrovare in modo scientifico tutti coloro che per qualsivoglia ragione hanno interrotto gli studi o hanno rinunciato a cercare un lavoro, e proporre soluzioni di orientamento o ri-orientamento ritagliate su misura.
Il Piemonte – in questo senso – dispone di un “Sistema della formazione professionale” (materia di competenza esclusiva delle regioni), che fino allo scatenarsi della pandemia da Covid-19 ha ottenuto risultati importanti: la percentuale di NEET indicata dalla rilevazione Istat relativa al Piemonte del 2016 (19,2%) era scesa ad una media regionale del 12,8% per i ragazzi e dell’8,9% per le ragazze, risultato molto positivo raggiunto anche grazie al contratto di “Apprendistato” esteso a tutti i livelli, dal diploma alla laurea ai master. Un antidoto che ha contenuto la possibilità di abbandono della ricerca di lavoro o del percorso di studi e ha favorito l’incontro con il mondo del lavoro e affievolito il numero dei casi di interruzione del percorso formativo.
“Questo perché il Piemonte vanta una tradizione risalente ai Santi Sociali del XIX secolo, ad istituzioni quali Fiat e Olivetti, pionieri nel valorizzare “l’intelligenza che sta nelle mani delle persone”, e che oggi si estrinseca in 54 centri sparsi nella regione che costituiscono il più efficace punto di accoglienza per l’incontro con i NEET”, conferma Giovanna Pentenero, già due volte assessore regionale del Piemonte al lavoro, istruzione e formazione.
Le istituzioni scolastiche rimangono comunque in assoluto i punti di contatto attraverso i quali il Sistema della formazione professionale ha potuto riattivare quei percorsi formativi che lo pongono in ottima posizione rispetto ad altre Regioni: il sistema piemontese è stato modulato anche in altre regioni – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana (con una differente declinazione) Lazio – che hanno ne intuito le potenzialità.
Come è facile intuire, la pandemia da Covid-19 ha fortemente inciso sulla continuità di rapporto tra le istituzioni – agenzie in testa –, pregiudicando i risultati conseguiti nel periodo precedente; la DAD ha sopperito per la parte formativa ma non per l’aspetto di “coesione” che la scuola rappresenta per i giovani, essendo il luogo naturale per il recupero dei loro percorsi di vita.
A questo punto, quale la soluzione?
Sicuramente l’avvio del “dialogo” tra sistemi formativi (universitario, scolastico,…) e mondo del lavoro attraverso l’uso compiuto delle istituzioni delle politiche attive, per collegare finalmente le competenze e le capacità con l’offerta di lavoro.
Un auspicio finale.
La compagine governativa appena varata dispone di competenze idonee, da un lato, a ridurre/annullare il “digital divide” che tiene distanti le piattaforme informatiche, dall’altro a varare forme di sostegno concreto al dialogo scuola-lavoro, magari anche attraverso un’efficace regolamentazione della già (negativamente) sperimentata “alternanza scuola/lavoro”, che non deve trasformarsi in mero sfruttamento di manodopera intesa a titolo gratuito, ma essere concreto trasferimento coinvolgente di competenze in ottica formativa.