Reato d’abuso d’ufficio
Una riforma necessaria contro la burocrazia difensiva
L’art. 323 c.p. prevede e punisce il reato di abuso d’ufficio.
Si tratta di una fattispecie compresa nella categoria dei c.dd. reati propri, di quelle condotte che solo se poste in essere dai soggetti indicati dal legislatore costituiscono fattispecie penalmente rilevanti, nel caso di specie, il pubblico ufficiale (357 c.p.) e l’incaricato di pubblico servizio (358 c.p.).
A integrare gli estremi della condotta illecita sono tutte quelle ipotesi nelle quali il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio intenzionalmente procurano a sé o ad altri, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero arrechino ad altri un danno ingiusto, sfruttando i poteri connessi alla propria posizione e utilizzandoli per fini diversi rispetto a quelli per i quali sono attributi dalla legge.
Con l. n. 190 del 2012 è stato inasprito il trattamento sanzionatorio, prevedendo per il reo una nuova cornice edittale compresa tra uno e quattro anni di reclusione (al posto di quella precedente che prevedeva reclusione da sei mesi a tre anni).
È un fenomeno ben conosciuto anche in ambito civile, in relazione al diritto di compiere atti contrari agli scopi etici e sociali che giustificano l’attribuzione dello stesso (rimedio all’esercizio fraudolento del diritto è l’exceptio doli).
In ambito amministrativo l’abuso dei poteri comporta la lesione del c.d. interesse legittimo, quando l’attività amministrativa non persegue i fini determinati (solo ed esclusivamente) dalla legge (art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990).
Il fenomeno dell’abuso ha valenza trasversale: all’attribuzione di poteri corrispondono limiti necessari al fine di garantire l’adeguata tutela delle posizioni soggettive dei consociati.
L’ipotesi di cui all’art 323 c.p. in effetti rappresenta un punto di contatto tra diritto penale e operato della pubblica amministrazione, destando spesso anche la preoccupazione di chi ha intravisto la possibilità per il giudice penale di insinuarsi nella discrezionalità amministrativa. Per vero, la disposizione è posta non solo al fine di scongiurare il rischio di prevaricazione tra privati (rispetto ai quali l’ordinamento giuridico positivo non ammette alcuna differenza), bensì anche a presidio del buon andamento della pubblica amministrazione.
Tale problema sembrerebbe risolto, attesa la chiarezza, la tassatività e la determinatezza del dettato normativo, con riferimento alla c.d. doppia ingiustizia del danno: l’ingiustizia deve interessare sia la specifica condotta (posta in essere «in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti», così riformulata dal decreto Semplificazioni), sia il vantaggio procurato/danno arrecato.
Sul punto, una recente giurisprudenza ha chiarito che «In tema di abuso di ufficio, la nozione di danno ingiusto non ricomprende le sole situazioni giuridiche attive a contenuto patrimoniale ed i corrispondenti diritti soggettivi, ma è riferita anche agli interessi legittimi, in particolare quelli di tipo pretensivo, suscettibili di essere lesi dal diniego o dalla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, sempre che, sulla base di un giudizio prognostico, il danneggiato avesse concrete opportunità di conseguire il provvedimento a sé favorevole, così da poter lamentare una perdita di chances» (Cass. pen. n. 44598 del 2019).
Il principio conferma la ciclicità del multiforme principio posto alla base dell’art. 323 c.p.
Va però anche detto che è in previsione un progetto di legge volto a ridisegnare il reato di abuso d’ufficio. Ciò deriva da un dato di fatto: su 5.400 procedimenti aperti nel 2021, solo 9 si sono conclusi con condanne davanti al gip e 18 in sede di dibattimento.
Invero, una rivisitazione del reato occorrerebbe non solo per porre rimedio alla burocrazia difensiva che negli ultimi tempi sta interessando il Paese, incidendo sulla celerità dei tempi amministrativi, ma anche per evitare un’inutile ipertrofia di procedimenti che divorano il tempo giudiziario senza comportare alcun effetto utile. È un fatto che il rischio di essere indagati per il reato di abuso di ufficio porta il pubblico funzionario, preoccupato di incorrere in ricorsi, denunce penali e responsabilità erariale a suo carico, a non adottare provvedimenti pure necessari oppure ad adottarlo ma non sulla base dell’interesse pubblico che dovrebbe perseguire, bensì sulla base di una scelta del provvedimento meno rischioso per la sua responsabilità personale.
Sarebbe necessario pensare al modo più corretto di reagire all’illecito, anche in considerazione della recente riforma Cartabia che ha previsto l’assoluzione per particolare tenuità del fatto per tutti quei reati che prevedono un minimo edittale non superiore a due anni. Così procedendo molte ipotesi di reato resterebbero comunque impunite.
Meritocrazia Italia ha condiviso già da tempo la proposta di modifica dell’art. 323 c.p. nell’ambito della più ampia riscrittura del sistema Giustizia, sollecitando maggiori chiarezza e precisione nella definizione della fattispecie e con
– previsione del presupposto del dolo specifico e di una condotta circoscritta nei termini dell’omissione o del ritardo di un atto del proprio ufficio ovvero del compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio,
– ed esclusione della punibilità di chi ha agito nell’ambito dei margini di discrezionalità riconosciutigli da norme e regolamenti e di abbia agito ad esclusivo vantaggio della pubblica amministrazione, purché dal fatto non sia derivato ad altri un danno ingiusto.