Salari minimi
Un tassello del puzzle
La scelta di affidare la determinazione del livello minimo salariale alla legge o alla contrattazione collettiva è coerente con le tradizioni dei sistemi di relazioni industriali presenti nei singoli Paesi. Uno studio della Camera dei Deputati, a tal proposito, evidenzia che «il salario minimo esista in tutti i 27 stati membri dell’Unione europea».
La Raccomandazione della Commissione (UE) 2017/761 del 26 aprile 2017, al paragrafo 6 – diritti sociali – richiama esplicitamente «il diritto a una retribuzione equa» quale fattore preminente da attuare in tutta l’Unione europea. La direttiva, tuttavia, non prevede una soglia minima salariale europea, dal momento che, in base ai trattati vigenti (TFUE), la materia è di competenza dei singoli Stati membri.
La distinzione fondamentale tra i regimi adottati nei vari Paesi europei riguarda due campi di applicazione: il primo di tipo universale, in quanto applicabile a tutti i lavoratori, il secondo di tipo settoriale, poiché destinato a settori o gruppi di occupati. In Italia, proprio in base a questo secondo principio, vige il riconoscimento del minimo salariale per diversi settori lavorativi, regolamentati dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Si ricorda anche che in Italia esistono due livelli di contrattazione collettiva: il primo livello, avente valenza nazionale, i cui prodotti sono i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) e gli Accordi Interconfederali (AI); il secondo livello, i cui prodotti hanno valenza territoriale o aziendale, tra i quali rientra anche il contratto di prossimità.
I contratti di primo livello fanno parte del diritto del lavoro italiano e sono stipulati a livello nazionale tra le organizzazioni rappresentative dei lavoratori dipendenti e le associazioni datoriali e ciò per ogni categoria: metalmeccanici, chimici, tessili, ecc. Questi contratti possono essere integrati da contratti di secondo livello, che devono essere migliorativi rispetto ai contratti nazionali di primo livello e in genere vengono stipulati su aree territoriali specifiche oppure da aziende che intendono migliorare la retribuzione dei propri dipendenti.
Nell’attuale ordinamento i contratti collettivi sono vincolanti solo per i datori di lavoro iscritti alle relative associazioni stipulanti. Ciascun datore di lavoro, tuttavia, anche non iscritto, è sempre tenuto a garantire ai propri dipendenti una retribuzione sufficiente e proporzionata alla qualità e quantità del lavoro, secondo quanto disposto dall’art. 36 cost.
La giurisprudenza italiana interpreta questo precetto costituzionale nel senso che la retribuzione considerata sufficiente e proporzionata è quella stabilita dalle organizzazioni sindacali nel contratto collettivo nazionale di lavoro della categoria economica di appartenenza del datore di lavoro.
I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro definiscono nel dettaglio i livelli retributivi minimi per le varie categorie di lavoratori: operai, impiegati e dirigenti e all’interno delle varie categorie esistono infine i livelli retributivi che si ottengono con la progressione della carriera e con l’anzianità di servizio.
È possibile quindi affermare che, per tutti i lavoratori occupati e inquadrati all’interno di un CCNL, non si ha esigenza di definire un salario minimo orario in quanto questo è già definito dai vari contratti di lavoro che devono essere rispettati anche se l’azienda non aderisce al CCNL.
Il problema si pone semmai per coloro che non sono tutelati da un CCNL, ovvero per i lavoratori precari e per i lavoratori occasionali; per tutti coloro che operano in alcune attività legate al commercio, ai servizi e al settore agricolo.
Per questi lavoratori la definizione di un salario orario minimo potrebbe avere valenza.
Ma questo risolverebbe davvero il problema?
La verità è che le difficoltà, per questi lavoratori, non risiedono solo nei salari minimi, bensì, nella quasi totalità dei casi, nella violazione costante dei diritti del lavoratore e del prestatore d’opera. In alcuni settori, infatti, insistono zone d’ombra che andrebbero regolate con una normativa di dettaglio, in grado di cogliere i punti di debolezza in cui il lavoratore, in alcuni specifici settori, versa.
Ciò genera vere e proprie distorsioni nel mercato del lavoro, ovvero la violazione sistematica dei contratti di lavoro: persone assunte a tempo parziale che invece lavorano a tempo pieno; mancato riconoscimento dello straordinario per le ore lavorate oltre il contratto di lavoro a tempo parziale o a tempo pieno; mancato riconoscimento delle indennità dovute per il lavoro durante le festività; mancato riconoscimento dei periodi di ferie dovuti a tutti i lavoratori dipendenti; salari pro forma che in sostanza vengono decurtati a piacimento.
Stabilire un salario minimo è soltanto un piccolo pezzo del puzzle complesso del miglioramento nella vita reale e quotidiana dei lavoratori.
Occorrono, oltre a normative più stringenti, maggiori strumenti di controllo affinché diritti e doveri vengano rispettati, trovando equilibri sia a tutela dei lavoratori sia in termini di garanzie ed opportunità verso i datori di lavoro. Il mercato del lavoro è poco trasparente e poco dinamico, infatti, a causa di limitazioni, costi e vincoli che affliggono anche il mondo datoriale che funzionano da deterrenti all’assunzione e regolarizzazione di un lavoratore dipendente.
In altri Paesi europei è lo Stato (si pensi al modello tedesco) che si fa carico dei lavoratori nei periodi di mancanza di lavoro e nei periodi in cui per esigenze varie i datori di lavoro sono costretti a congedare i lavoratori dipendenti. Questo supporto pubblico facilita i datori di lavoro e i lavoratori perché consente ai primi massima flessibilità nella decisione di assumere nuovi lavoratori all’occorrenza e tutela i secondi per i periodi di inattività dovuti alla stagionalità del lavoro o a difficoltà di altro genere.
Una maggiore cooperazione tra tutti i cittadini, datori di lavoro o lavoratori dipendenti, e lo Stato, dovrebbe essere la prima azione da portare avanti per aiutare tutti quei lavoratori che non appartengono a una categoria per la quale è vigente un CCNL. Solo così il mercato del lavoro sarà uno specchiato mondo rapportuale, e si potrà anche stabilire quale salario minimo debba essere riconosciuto a questi lavoratori, trovando equilibri tesi a una rinascita sociale ed economica del Paese.
Fonti
Europa.eu “Raccomandazione UE 2017/761”
Camera.it “Camera dei Deputati Dossier LA0209” Novembre 2022
Eurostat “Minimum wage statistics” Gennaio 2023