Sempre dalla parte della libertà
Iran. Resistere per la dignità
I recenti drammatici accadimenti in Iran alimentano il pregiudizio nei confronti della religione islamica. Le violenze di questi giorni, dai rapimenti, alle torture e alle uccisioni, sono però altra cosa. E hanno motivazioni differenti.
La costruzione del regime iraniano è congegnata in modo da rendere il sistema inattaccabile dal basso. L’impronta culturale, retta sì dalla fede islamica, porta ad abbandonare se stessi a Dio e a coloro che se ne fanno intermediari nella preghiera quotidiana, le c.dd. Guide spirituali. Nessuna ribellione al potere è consentita.
Ma il vero è che «L’argent fait la Guerre», diceva Bonaparte. Alla ricchezza degli ayatollah si contrappone l’estrema miseria di un Popolo vessato.
La forza diventa, come spesso accade, mero strumento di affermazione di potere dittatoriale.
Seminare il terrore rende le masse più fragili, e quindi più facilmente governabili. Vessazioni e umiliazioni indeboliscono e mortificano ogni aspirazione.
Poi, però, arriva sempre un punto di rottura.
E quel punto sembra raggiunto in Iran. La rabbia e la sofferenza portano a una reazione forte, in disconoscimento di un regime militare forgiato sulla barbarie, che calpesta i più fondamentali diritti umani e straccia ogni dignità umana.
E oggi non basta la repressione, con la morte di centinaia di manifestanti, principalmente giovani, fermare l’eversione.
Mahsa Amini (Saqqez, 22 luglio 2000 – Teheran, 16 in settembre 2022) fu arrestata dalla polizia religiosa il 13 settembre 2022 a Tehran, dove si trovava con la sua famiglia per fare acquisti, a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo, in vigore dal 1981, poi modificata nel 1983 per tutte le donne nel Paese, sia straniere, sia residenti. Mahsa indossava l’hijab, ma non nel modo corretto. La giovane morì in circostanze sospette il 16 settembre, con ferite riconducibili a un pestaggio, dopo tre giorni di coma, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica. Testimoni oculari affermarono che era stata picchiata e che aveva battuto la testa.
La morte di Mahsa Amini diventava subito l’emblema di uno Stato violento e intollerante.
10 giorni dopo, un’altra vittima delle proteste anti-velo, che scuotono ormai da mesi le piazze delle principali città dell’Iran. Hadis Najafi, 20 anni, lunghi capelli biondi, veniva uccisa dalle forze di sicurezza iraniane durante le proteste nella città di Karaj, vicino a Teheran. Secondo notizie diffuse sui social, la ragazza era raggiunta al petto, al viso e al collo da sei colpi di proiettile.
La ‘ragazza con la coda’ diventata simbolo delle proteste anti-velo. In un video, diventato virale, la si vedeva legarsi i capelli con un elastico, senza l’hijab, prima di affrontare la piazza, contraria all’uso obbligatorio del velo e alle leggi discriminatorie dei diritti delle donne nella Repubblica islamica a maggioranza sciita.
A seguire, secondo quanto riportato da attivisti iraniani di Human Rights Activists News Agency (Hrana), sarebbero almeno 451 i manifestanti uccisi, tra cui 64 minori, oltre 18 mila gli arresti, 159 le città coinvolte nelle proteste e 143 le università in sciopero. Secondo le Nazioni Unite, sarebbero più di 40 i minori uccisi e si ritiene che, tra le oltre 14.000 persone detenute, tra i 500 e i 1.000 siano minorenni, alcuni minacciati di esecuzione, dopo la repressione mortale dei manifestanti in Iran.
Eppure l’Iran ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui si afferma che l’arresto o la detenzione dei bambini devono essere utilizzati solo come misura di ultima istanza e per il periodo di tempo più breve possibile, e che i bambini devono essere trattati con rispetto e cura e devono poter mantenere i contatti con la propria famiglia.
Impegni non mantenuti. Obblighi gravemente violati.
«Donna, vita, libertà».
Uno slogan politico curdo, sempre più spesso usato dai movimenti indipendentista curdo e del confederalismo democratico.
Grido di richiamo durante le proteste, lo slogan fu dapprima coniato da attiviste curde e poi si diffuse in altre proteste in tutto il mondo, tanto che il 25 novembre 2015 venne usato ai raduni svoltisi in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne in diversi Paesi europei.
Ogni attacco ai diritti delle donne è da combattere fermamente. Ma ora la questione non si riduce più solo a questo.
Non è un fatto domestico.
La dignità umana e i diritti fondamentali non hanno dimora né confini geografici. La libertà di alcuni è problema di tutti.
Il mondo intero, l’Italia tra gli altri Paesi, non può continuare a restare spettatore inerte. Occorre una reazione decisa.
È il momento della diplomazia, della coesione e della solidarietà.
«La dignità dell’Uomo richiede che le sue opere siano frutto della sua libera scelta, senza nessuna coercizione esterna» (Papa Paolo VI)