SMART WORKING, TRA PRESENTE E FUTURO
Un’opportunità anche per la p.a.?
Lo smart working è stato considerato il pilastro della Fase 2 del periodo emergenziale e della ripartenza del Paese.
Già nel mese di Maggio, il dPCM di regolazione della riapertura ne disponeva il massimo ricorso, compatibilmente con la particolare natura delle attività.
L’atteggiamento attuale lascia presagire che il lavoro agile sia destinato a diventare la nuova normalità, anche a emergenza superata. Le imprese saranno chiamate a reinventare i modelli organizzativi in un’ottica di maggiore flessibilità.
Dal punto di vista dei lavoratori, uno studio della Cigl denota che il 60% vuole proseguire l’esperienza di smart working anche dopo l’emergenza, il 22 % preferisce interromperla, mentre il 18% è indeciso. Si evince altresì che le donne sono le meno convinte, perché temono alienazione e stress dovuto all’aumento dei carichi familiari, essendo spesso costrette a lavorare con figli nel contempo attenti a seguire video-lezioni o a giocare.
A ben guardare, quello realizzato durante la fase emergenziale non può dirsi smart working nel senso affidato all’espressione dalla l. n. 81 del 2017, come modalità di lavoro senza vincoli spazio temporali ma organizzata per fasi, obiettivi e cicli. Né può propriamente discorrersi di telelavoro, più rigido soprattutto sui luoghi della prestazione e sugli orari. Nella maggior parte dei casi si è semplicemente trasferita a casa l’attività lavorativa fino a qualche giorno prima svolta in ufficio Più corretta sarebbe discorrere di home working.
La tempistica di adeguamento non ha consentito di far nulla di diverso. Tale modalità lavorativa nel 37% dei casi è stata concordata con il datore di lavoro, nel 36% dei casi è stata stabilita in modo unilaterale, e nel 27% dei casi negoziata tramite il sindacato.
Diverse sono le problematiche connesse a tale tipologia di lavoro:
• acquisizione delle competenze specifiche necessarie;
• esigenza di evitare un surplus del carico di lavoro (e in questo ambito si parla infatti di “diritto alla disconnessione“, senza la quale si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa);
• garanzia della tutela della privacy che ha fatto intervenire il Garante, secondo il quale “il ricorso alle nuove tecnologie non può rappresentare l’occasione per un monitoraggio sistemico del lavoratore. Non sarebbe legittimo fornire un computer dotato di funzionalità che consentano al datore di lavoro di esercitare un monitoraggio sistematico e pervasivo dell’attività compiuta dal dipendente tramite questo dispositivo“;
• rischio concreto di avere dipendenti colpiti da tecno-stress, dato che le situazioni che viviamo spesso sono improvvisate, essendo nuove per tutti.
Già da Maggio anche nella p.a. è stato sollecitato il ricorso allo smart working per almeno il 40% dei dipendenti pubblici, percentuale poi innalzata al 50% con possibilità di tendere al 75%, come per il settore privato. L’auspicio è quello di avere una p.a. “più flessibile, dinamica e digitalizzata“, con superamento del “feticcio del cartellino“, delle polemiche dei furbetti, verso un lavoro per obiettivi, con scadenze giornaliere, settimanali e mensili.
Sarà possibile realizzare questa importante trasformazione?
Sono necessari innanzitutto un cambio di mentalità, maggiore attenzione alla formazione del personale e un cambiamento importante anche nel ruolo dei dirigenti.
Anche nella p.a. il Covid ha contribuito a portare i nodi al pettine, mettendo in evidenza ancora di più le criticità esistenti.
Dal punto di vista dei lavoratori, secondo un’indagine di Fpa (società del gruppo Digital360), il bilancio dello smart working ‘forzato’ della p.a. durante il lockdown è stato positivo, in quanto l’88% dei dipendenti giudica l’esperienza di successo. Pur se avvenuta in modo spesso improvvisato, questa modalità di lavoro sembra essersi mostrata abbastanza efficace. Si sono avuti i primi segnali che un diverso approccio lavorativo nella p.a. non solo è possibile, ma può portare grandi benefici per le amministrazioni, i lavoratori e la società intera.
Non manca, però, un lato oscuro della medaglia.
Uno dei maggiori ostacoli, l’inadeguatezza delle dotazioni tecnologiche, è stato superato dalle persone in quanto il 68,2% del personale ha utilizzato pc personali, il 77,1% il proprio telefono cellulare, il 95% la connessione internet domestica, nonostante il 68,3% non ha ricevuto formazione specifica sul lavoro da remoto.
Secondo Confartigianato, poi, il 69% delle micro e piccole imprese ha avuto difficili relazioni con gli enti pubblici, nell’accesso agli sportelli pubblici. La riduzione del personale della p.a. presente fisicamente ha creato problemi di risposte da parte degli uffici. Il 49,6% delle micro e piccole imprese segnala anche la difficoltà nell’accedere ai servizi web della p.a.
La Presidente dell’Associazione dei commercialisti dichiara “disastrosa” la situazione riferendosi a diversi Enti quali Agenzia delle Entrate ed Inps, per i riscontrati problemi principali di disallineamento degli orari dei dipendenti pubblici in remoto rispetto a quello degli studi e di mancanza di interlocutori con cui confrontarsi sulla gestione delle pratiche. Meno drammatica, ma non troppo più agevole, sembra essere stata la situazione nel mondo forense in quanto gli uffici giudiziari hanno potuto contare su una maggiore familiarità con il digitale.
Questa modalità di lavoro, visto il prorogarsi della crisi pandemica, ha necessità di una seria programmazione d’approccio e di sistemi gestionali diversi da quelli strettamente emergenziali.
Di certo gli sviluppi nella digitalizzazione della p.a. potrebbero avere notevoli effetti positivi sull’intero sistema produttivo. Questo periodo ha evidenziato quanto poco sia stato fatto in passato e quanto lunga sia ancora la strada da percorrere.
Nel frattempo sono gli utenti a soffrire disagi e disservizi.
La fine del primo lockdown totale non ha frenato lo smart working. Al contrario ci si è attivati con tavoli di confronto tra sindacati e aziende per capire se la legge del 2017 abbia bisogno di una revisione in adeguamento alla nuova realtà e se vadano inserite regole ad hoc nei contratti collettivi di lavoro.
Se da un lato il ricorso allo smart working può essere l’occasione per rilanciare l’efficienza di impresa, il benessere del lavoratore e la sostenibilità ambientale, si deve riflettere, con la stessa attenzione, come questo possa produrre preoccupanti effetti a cascata per altri settori, dai pubblici esercizi alla ristorazione collettiva.
Bisogna utilizzare il know-how acquisito in questo periodo, ripensando a procedure, sistemi premiali, rapporto tra tempi e risultati, modalità del lavoro da casa.
Un supporto notevole potrebbe venire dall’implementazione delle app, già adottate da alcuni enti, ma da diffondere, ad esempio, per fissare appuntamenti, in modo da consentire un accesso regolamentato ove possibile alle sedi fisiche, o per prenotare una telefonata. Tali app, già utilizzate per i pagamenti, potrebbero gestire anche gli sgravi fiscali.
Non si può comunque prescindere dalle capacità organizzative delle singole amministrazioni, che non sono tutte uguali in efficienza e organizzazione, né dalla necessità di efficientare i servizi ai cittadini e alle imprese, senza ritardi né disfunzioni.
Di ANTONELLA GALARDO
FONTI:
“I indagine sullo smartworking” CGIL/Fondazione Di Vittorio 18/05/2020
“Strategie individuali e organizzazione di risposta all’emergenza” 17/4/20-15/05/2020 Indagine FPA ( Digital 360)
“Burodemia. ConCovid-19 relazioni difficili con PA per 69% MPI. Pesa il ritardo digitale” Sondaggio Ufficio Studi Confartigianato