
Successi veri, non di facciata
Dell’avocado non si sentiva tanto parlare prima dell’esplosione dei social network. Oggi a questa realtà è invece spesso associato.
Di solito, si sa, le piattaforme rappresentano il principale strumento di autoesaltazione e di mistificazione delle caratteristiche naturali di ciascuno. Grazie ai filtri e alla possibilità di creare identità fittizie, ci si propone per quello che non si è.
Per l’avocado è il contrario. Ne vengono esaltate tantissime proprietà reali.
Da qui voglio partire per richiamare l’attenzione su un diritto particolare, quello a essere fragili.
Alla fragilità Paulo Coelho dedicava una poesia capace di racchiudere in poche battute il valore delle debolezze. Piangere, senza aver paura di farsi vedere da altri, è importante, perché dalla tristezza nasce la possibilità della reazione, e del sorriso.
Coelho volle lanciare un messaggio al mondo dei perfetti. Anzi, a quel mondo che brama la perfezione e adora ostentarla.
La fragilità non va vista solo dal punto di vista individuale, ma assume sempre più una dimensione sociale.
Essere apprezzati, poter essere visti come i migliori in un certo ambito è fondamentale per non restare al margine. Come accade a chi, ad esempio, fa lavori più umili e vanta di meno le proprie virtù pubblicamente.
L’uso sfrenato dei social ha generato il paradosso di una gara in cui conta soltanto il primo posto. Non ci sono altre posizioni. Chi non arriva primo è automaticamente ultimo.
Manca l’energia del lavoro medio, quello che invece alimenta il motore dello sviluppo dell’intera comunità.
Viene meno quell’ammortizzatore sociale che è nell’impegno a migliorarsi, a crescere. Avere la possibilità di intraprendere un percorso lavorativo non consente di sentirsi già arrivati. Bisogna sempre mettersi in gioco e dubitare delle proprie abilità, per scoprire i propri limiti e cercare di superarli. Così si sale di livello. Così cresce, insieme al singolo, l’intera comunità.
E invece i genitori vivono l’ansia del miglior giudizio per i propri figli, indipendentemente dall’impegno effettivo e dal merito. Si parte così dalla scuola e si finisce per scegliere i percorsi universitari più agevoli, dove vengono dispensati più facilmente voti alti e ci si laurea nel minor tempo.
In tutto questo chi è a perderci davvero?
Forse ci guadagniamo tutti nella forma, ma nella sostanza ci perdiamo tutti.
Nessuno può davvero mettere a frutto le proprie potenzialità senza vivere la competizione sana, e questo non permette di mettersi al servizio della società secondo le utilità che si è in grado di apportare.
Alle volte la vittoria arriva dopo tante sconfitte. E sono proprio le sconfitte a fare da sprone, ad alimentare la voglia di riuscire davvero.
Per successi non di facciata.
Rivendicando un diritto alla fragilità, Meritocrazia vuole assecondare, e non soffocare, la tendenza a sentirsi inadeguati in un percorso condiviso, a capire che, guardandosi allo specchio, ci si può scoprire imperfetti. Va bene anche sentirsi più deboli e impacciati degli altri. L’importante è trovare sempre il coraggio di chiedersi come poter contribuire, quale parte di sé dare a favore degli altri.
Capita spesso di sentirsi all’altezza, per poi farsi trovare impreparati e fallire nel raggiungimento di obiettivi non difficili.
Dovremmo imparare a chiedere aiuto, a chiedere scusa quando commettiamo un errore. Non è sbagliato piangere per l’emozione o mostrare sentimenti di dispiacere.
Così nascono i rapporti autentici. Di questo è fatta la vera condivisione.
Meritocrazia è un gruppo di persone vere, umili, capaci, ma soprattutto caparbie, che sanno sognare, vogliono e ottengono.
Non siamo tutti uguali. Abbiamo sensibilità diverse, e attitudini diverse.
In questa diversità, il valore del nostro progetto.