Suicidi in carcere

Suicidi in carcere

Dalla pena ai diritti

Un altro anno nero per le carceri italiane, tra sovraffollamento, strutture datate e suicidi.

Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza diciannove volte maggiore rispetto alle persone libere e, di solito, lo fanno negli istituti in cui le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività, con una scarsa presenza del volontariato.

Al fine di rispondere adeguatamente al fenomeno, si dovrebbe ragionare sulle motivazioni che spingono al compimento di tali azioni, sul momento in cui si verificano, sulla ragione per la quale un soggetto è ristretto e, in generale, sulle reali condizioni delle carceri italiane.
Se, infatti, l’ingresso in carcere e i giorni immediatamente seguenti sono un momento nel quale il rischio suicidio appare molto elevato, restano alti anche i numeri dei suicidi di chi paradossalmente è giunto in prossimità della fine pena: l’elemento che accomuna i suicidi è la mancanza totale di prospettive nell’animo del detenuto.

Non solo, i detenuti per omicidio (che sono il 2,4% di tutti i detenuti, tra attesa di giudizio e espiazione pena) rappresentano ben il 13% dei casi di suicidio registrati, con un numero di suicidi più alto tra i soggetti autori di omicidi in famiglia e quasi inesistente tra i responsabili di delitti maturati nell’ambito della criminalità organizzata.
Ancora, sono coinvolti più gli italiani che gli stranieri, se si considera che su una presenza straniera del 30% circa sul totale dei detenuti, i suicidi degli stranieri sono il 16%.
Tuttavia questa percentuale potrebbe essere sottostimata, in considerazione della maggiore difficoltà a raccogliere notizie sulle morti dei detenuti stranieri, spesso privi di qualsiasi rete di sostegno.

Del resto, il numero complessivo dei suicidi è probabilmente sottostimato, dal momento che tra i detenuti è diffusa, ad esempio, la pratica del drogarsi inalando il gas delle bombolette per alimenti e l’esito mortale di tale condotta viene spesso considerato dall’amministrazione penitenziaria come atto involontario, a prescindere da ciò che è accaduto realmente.

Si dovrebbe agire in termini di prevenzione ed è necessario attivare un monitoraggio permanente sulle morti in carcere.
Non soltanto per suicidio, ma anche per i decessi dovuti a malattia.

Per aumentare la consapevolezza generale su questo tema, serve una maggiore circolazione delle notizie e serve stimolare la stampa ad interessarsi maggiormente ai problemi del carcere. Anche l’opinione pubblica ne risulterebbe sensibilizzata.
A tal fine bisognerebbe promuovere momenti di confronto e dibattito, coinvolgendo anche rappresentati politici e degli enti locali.

‘La condizione del carcere di un paese rappresenta l’indice dello stato di sviluppo della sua democrazia’.

La pena deve poter diventare diritto, per chi ha commesso crimini sociali, di diventare una risorsa per la società.
Del carcere si parla per dire delle condizioni, non delle relazioni. Del carcere si parla senza parlare dei carcerati. Senza intervenire sulle misure delle pene e sulla qualità della efficacia sociale.
Non si riesce a parlarne senza confondersi, tanto è l’intricarsi di effetti e cause diverse e complesse.

Ci vuole l’opera sinergica di tutti, dai magistrati ai cittadini, dalle forze di polizia ai cittadini.
Il detenuto deve essere messo in condizioni di essere presente nella società, seppure in detenzione. Il primo passo è lavorare sulle relazioni nella comunità carceraria e tra la comunità carceraria e la società.

La condizione del carcere di un Paese rappresenta l’indice dello stato di sviluppo della sua democrazia.
Uno stato libero e democratico potrà effettivamente essere tale, quando i diritti di tutti saranno equamente tutelati e rispettati.



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