UNBREAKABLES – EPISODIO 4
JOHN STOCKTON, LA VOCE DEL SILENZIO
“I’d go with my older brother to the gym or park, and when I went out there, I’d pass the ball so I could get picked again.”
“Andavo con mio fratello più grande sul campo o al parco, e quando ero lì, passavo sempre il pallone, così sarei stato scelto di nuovo.”
È un giorno di giugno 1984, qualcuno sta fischiando mentre altri sono semplicemente in attonito silenzio, nella piazza principale di Salt Lake City.
È un giorno magico, che sta per delineare quella che sarà una generazione di leggende in grado di rivoluzionare il basket mondiale: vengono chiamati, al Draft, i futuri Hall of Famers Michael Jordan, Hakeem Olajuwon, Charles Barkley.
Alla sedicesima chiamata, gli Utah Jazz scelgono di puntare su un profilo molto insolito: un ragazzo di 22 anni, all’anagrafe John Houston Stockton, proveniente da un College con modesta storia a livello di Basket giovanile.
Ciò che lascia tutti perplessi è, infatti, la fisicità del giocatore: “soli” 185 centimetri per 79 kg fanno di lui un Davide in mezzo a tanti Golia; nessuno nota (o ancora peggio, tutti sottovalutano) che durante l’anno da senior (l’ultimo nel College Basket americano prima del Draft), con lui in campo, la Gonzaga University ottiene i risultati migliori dell’ultimo ventennio.
È indubbio che Madre Natura sia stata poco gentile sul piano delle doti atletiche, ma ogni occhio sufficientemente attento sarebbe riuscito a notare una chiara compensazione a questo svantaggio, con un talento e una mentalità fuori dall’ordinario.
Ha una magnifica propensione all’assist, ha un tiro da 3 particolarmente preciso e, più importante di tutti, riesce a leggere il gioco come nessuno; inutile dire che diventerà uno degli “steal of the Draft” (furti al Draft) più grandi della storia.
Stockton ha come mito Magic Johnson, ma non può giocare come lui, è una persona troppo timida e riservata, quasi schiva, per cui adatta il basket al suo carattere: mai eclatante, alla ricerca della spettacolarità nella giocata, ma focalizzato all’utilità e all’efficacia della giocata, scegliendo sempre l’alternativa migliore, preferendo sempre il servizio o, ancora meglio, l’assist vincente al compagno rispetto alla giocata personale.
Anche dal punto di vista difensivo è un giocatore mostruoso: Stockton, nonostante la fisicità spesso inferiore rispetto agli avversari, aveva un’intensità, una tenacia e una ferocia fuori dal comune, unite a livelli stratosferici di astuzia e cinismo, caratteristiche che l’hanno spesso mostrato come uno dei giocatori “più sporchi” dell’NBA; molto abile nel nascondersi tra le maglie avversarie, e nel non farsi catturare dagli occhi indiscreti degli arbitri, in alcuni recuperi un po’ border line tra il legale e il falloso.
A Salt Lake City decidono di puntare su quel ragazzo così timido, che intanto era riuscito a diventare il playmaker titolare della squadra in appena un paio d’anni aggiungendo, l’anno successivo, il tassello mancante, un finalizzatore micidiale: Karl Malone; i due diventeranno, oltre che grandi amici fuori dal campo, un binomio micidiale nel rettangolo di gioco, capaci di trovarsi alla perfezione, quasi a memoria, rendendo la “Stockton – to – Malone” (da Stockton a Malone) una delle frasi più note e abusate dai commentatori per circa un ventennio.
Stockton è il classico esempio di leadership silenziosa, un fenomeno in campo che ha sempre sacrificato il proprio ego, la gloria personale, in favore dei propri compagni di squadra; in questo modo permetteva al gruppo di cementificarsi attorno alla sua figura e di rendere anche al di sopra delle proprie reali potenzialità.
“La cosa che mi carica di più in campo? Riuscire a far segnare un canestro importante a un mio compagno.”
“Per essere un grande leader, devi desiderare che i tuoi compagni abbiano successo. La tua voglia di vincere deve superare il desiderio di brillare dal punto di vista personale.”
Stockton rimane legato agli Utah Jazz durante tutta la sua carriera sportiva, disputando ben 19 stagioni per la stessa franchigia, la stessa che aveva creduto in lui fin dall’inizio, andandosene nello stesso modo in cui era arrivato: in punta di piedi, senza conferenze stampa o dichiarazione alcuna, ma con un semplice comunicato della società, che in suo onore ritira la maglia numero 12, con la quale aveva deliziato ogni amante del basket.
Regala agli almanacchi due record quasi imbattibili (assist forniti ai compagni e palle recuperate) purtroppo insieme a una mancanza enorme, che sicuramente avrebbe meritato: la vittoria del titolo NBA, che non riuscirà mai a conquistare, arrivando due volte in finale, battuto entrambe le volte dai Chicago Bulls di Michael Jordan.
I riconoscimenti a fine carriera non tardano ad arrivare, è infatti inserito nella Hall of Fame dell’NBA, inserito tra i migliori 50 giocatori della storia, e ritenuto uno dei più forti a non aver mai vinto un titolo.
Considerato uno dei migliori playmaker puri (se non il migliore) a calcare un campo da gioco, l’uomo John Stockton, grazie alla sua umiltà, al suo carisma, alla sua intelligenza, oltre che alle sue doti tecniche è stato in grado di trasformare i fischi in applausi nel giro di pochissimo tempo, e si merita, di diritto, un posto nell’Olimpo del basket mondiale.
“I never felt I was better than anybody, but I always felt I could compete with anybody.”
“Non ho mai pensato di essere migliore di tutti gli altri, ma ho sempre creduto di poter competere con chiunque.”
John Stockton
Di FEDERICO TRIVELLONE