Vogliamo una politica ambiziosa

Vogliamo una politica ambiziosa

Mi piace ritornare, oggi, sul senso di una scelta fatta da Meritocrazia Italia qualche tempo fa. Una riflessione che mi è sollecitata dal certo modo di fare politica che mi sembra di riscontrare un po’ da tutte le direzioni, senza distinzione di partito.

A me pare che, a fronte del quadro sociale ed economico disastroso a tutti noto e che non serve descrivere, la politica abbia perso di ambizione e punti soltanto ad assicurare una tutela minima per tutti, in una sorta di livellamento verso il basso dell’effettività dei diritti fondamentali.
Per intendersi, la tutela del lavoratore è ridotta alla richiesta di un salario minimo, senza la pretesa di maggiore inclusione occupazionale, di migliore sicurezza o di condizioni d’opera che consentano parità di trattamento. Un po’ come accadde qualche anno fa con l’introduzione del reddito di cittadinanza, nella cui logica si affidava, forse, ai più bisognosi un aiuto per la sopravvivenza, ma non anche opportunità di vita diverse, in linea con le aspirazioni personali, che anzi ne risultavano soffocate. Ancora, l’uguaglianza tra i generi è ridotta all’uso di termini e aggettivi, più importanti dei fatti, e così anche per le disabilità. In un politicamente corretto che risponde a un perbenismo formalista che potrebbe anche servire, ma solo se accessorio a un piano di intervento di sostanza a profondità.
E allora, quando mi capita di assistere a questa ‘politica al ribasso’, e questo accade sempre più spesso, mi tornano in mente le parole di Montesquie, che, in tempi meno sospetti, sosteneva che «Fare l’elemosina a un uomo nudo, per strada, non esaurisce gli obblighi dello Stato, che deve assicurare a tutti i cittadini la sopravvivenza, il nutrimento, un vestire adeguato, e un modo di vivere che non contrasti con la sua salute»; salute che non è soltanto integrità fisica e mentale, ma è capacità di vivere la propria esistenza pienamente e come membro della società.
Aveva ragione Stefano Rodotà – il cui pensiero forse è stato portato un po’ oltre le sue reali conclusioni – quando sosteneva che il punto di convergenza tra benessere e crescita sta tutto nella garanzia di un’esistenza libera e dignitosa per tutti.

Giungo, così, alla determinazione di Meritocrazia, che, poco dopo la sua costituzione, scelse di completare il proprio logo rinviando non soltanto al merito, ma anche all’equità sociale, a memoria del fatto che obiettivo primo di ogni azione politica deve essere realizzare una società che sia equa, senza essere piattamente egualitaria.
Va da sé che bisogna intendersi sul significato da attribuire al termine e sulle modalità di realizzazione. Però è certo che, tra le altre cose, uno degli ostacoli principali sia nella scarsezza di risorse economiche. È un fatto che, di fronte alla difficoltà economica, sia più difficile garantire i diritti sociali. La copertina è sempre troppo corta e di solito si sceglie di tirarla un po’ lasciando scoperti (ridimensionando o riducendo) i diritti sociali, che diventano ‘diritti di serie B’. È così che si consente all’economico di prevalere. Secondo una logica lontana dalla legalità costituzionale, che ribalta quel rapporto gerarchico tra persona e mercato che è imposto dalla nostra Carta costituzionale in rivoluzione dell’impostazione mercatocentrica dell’epoca precedente. Un imbarazzante ritorno al passato.
Come qualcuno ha sostenuto, se si intende l’utilità sociale nel senso della massimizzazione del benessere economico, ci si colloca in un’ottica produttivistica che è incapace di cogliere una dimensione dell’uomo e del suo benessere che superi l’inevitabile egoismo esclusivista del rapporto economico.

Deve cambiare la nozione di felicità perseguita. Il benessere non va riferito solo a doveri e obblighi di soggetti pubblici, tenuti a garantire i diritti e a garantire i servizi indispensabili, ma ha una sua versione soggettiva, nel senso che l’individuo stesso è titolare di un potere di definizione della misura del proprio benessere. Il singolo va responsabilizzato nell’agire sociale, perché il benessere sociale passa attraverso il benessere individuale.
Il motore del cambiamento ha trazione individuale. È soprattutto l’agire del singolo e dei singoli l’elemento rilevante ai fini dell’assetto generale della società.
Circolarmente, affinché ciò sia possibile, è indispensabile che l’assetto istituzionale, l’ordine giuridico-sociale sia tale da non reprimere in radice la creatività dell’azione individuale. Ma l’assetto istituzionale non è qualcosa di statico e astorico. Per questo è sterile lamentarsi della mancanza di libertà prendendosela con lo Stato, con le Istituzioni, con il sistema, come se fossero entità autarchiche estranee dal Noi.
Probabilmente è il tempo di abbandonare l’orientamento neoclassico-liberista di esaltazione del modello egoistico secondo il quale è soltanto il perseguimento dell’interesse individuale a consentire di raggiungere il massimo benessere sociale. È il tempo di sollecitare le motivazioni etiche dell’agire anche economico.

Riprendo le parole di un autore che dipinge la realtà con grande lucidità e offre, per parte, la soluzione ai nostri mali. «Così attraversiamo tempi cupi, e siamo come terra in cui passano eserciti, saccheggiano. Nessuno sembra in grado di vincere, per cui è difficile vedere la fine. Ogni giorno che passa, diminuiscono le scorte: di forza, di bellezza, di rispetto, di umanità, perfino di umorismo». La soluzione è uscire dal torpore, rendersi conto che la gente ha ragione, ma anche «mettersi immediatamente al lavoro per redistribuire ricchezza. Tornare a occuparci della giustizia sociale. Staccare la spina alle vecchie elites novecentesche e affidarsi [alle nuove intelligenze]: farlo con la dovuta eleganza ma con ferocia […] liberare le intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del There Is No Alternative […] Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare il futuro, riportandoli però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente».
Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio.
Chiudo con un interrogativo che dovrebbe impegnare molto il nostro pensiero: «Stiamo generando una civiltà molto brillante, perfino piacevole, ma che non sembra in grado di reggere l’onda d’urto del reale. È una civiltà festiva, ma il mondo e la Storia non lo sono: smantellare la nostra capacità di pazienza, fatica, lentezza non finirà per produrre generazioni incapaci di resistere ai rovesci della sorte o anche solo alla violenza inevitabile di qualsiasi sorte? A furia di allenare skill leggere – si inizia a pensare – stiamo perdendo la forza muscolare necessaria al corpo a corpo col reale: da qui una certa tendenza a sfumarlo, il reale, a evitarlo, a sostituirlo con rappresentazioni leggere che ne adattano i contenuti rendendoli compatibili con i nostri device e con il tipo di intelligenza che si è sviluppata nelle loro logiche. Siamo sicuri che non sia una tattica suicida?».



<p style="color:#fff; font-weight:normal; line-height:12px; margin-bottom:10px;">Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso consulta la nostra Privacy Policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.</p> Leggi la nostra cookie policy

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi